«Il cielo sopra il porto era del colore di uno schermo televisivo sintonizzato su un canale morto», ecco qui, uno degli incipit più belli della letteratura mondiale. È meglio di una strofa di Bob Dylan. Se l'avesse scritto un autore cinese impegnato gli avrebbero dato il Premio Nobel. Invece è Neuromante di William Gibson, e a rileggerlo oggi altro che fantascienza, è semplicemente un capolavoro, assieme a Giù nel cyberspazio e Monna Lisa cyberpunk, la Trilogia dello Sprawl (ora raccolta in un volume unico da Mondadori). Gibson sfoggia una scrittura che, ammettiamolo, il maestro Philip Dick se la sognava, sebbene grande anticipatore e visionario, nella fattispecie con gli androidi e le pecore elettriche, magnifico, perfetto, ma ancora non propriamente cyberpunk.
A proposito: cosa ne è del cyberpunk? I critici neppure se ne ricordano più, eppure se gli anni Sessanta sono il decennio della pop art e delle neoavanguardie, i Settanta gli anni dell'impegno e dei porci con le ali e compagnia bella, gli anni Ottanta sono indubbiamente il decennio cyberpunk. Una poetica forte, letterariamente nata dal romanzo di Gibson, che non ha nulla da invidiare a un Thomas Pynchon o a un David Foster Wallace, per dirlo a quelli che fanno ancora gli schizzinosi.
Tra l'altro, en passant: stiamo attendendo il remake di Blade Runner, il film cult e cyberpunkissimo del 1982, mentre Terminator (non è cyberpunk anche Terminator?) è del 1984, anno di uscita anche di Neuromante, perché era l'aria che si respirava (noi respiravamo canticchiando perfino Rock'n Roll Robot di Alberto Camerini), ma il primo romanzo, non c'è dubbio, lo ha scritto Gibson. Ah, i tempi della grande corsa all'oro dei personal computer, il brivido di avere a casa un Commodore 64 o uno Spectrum e senza ancora internet e sentirsi parte di un mondo che stava cambiando, e ci avrebbe portato chissà dove, verso un nuovo tipo di essere umano. Mezzo biologico mezzo macchina. Come L'uomo da sei milioni di dollari ma in universo diverso, presentendo una connessione diversa, un'espansione imminente della mente attraverso il silicio. Oppure le macchine avrebbero preso il sopravvento e saremmo dovuti tornare indietro nel tempo per salvare nostra mamma, Sarah Connor.
E dunque, rileggendo la trilogia di Gibson, ci si rende conto di quanta roba c'era già dentro, e di quant'è scritto bene, e quant'è attuale, e quant'è complesso. Case, con «il sistema nervoso azzoppato con una micotossina». Molly, con le protesi artificiali sugli occhi e le lame retrattili sotto le unghie. Armitage e le sue oscure trame. Innesti, giunzioni neurali, microbionica, Chiba City (la Tokio del 2020), banche dati impiantate direttamente nel cervello, come il contrabbandiere Johnny Mnemonico (da cui il film del 1995 con Keanu Reeves, che presto diventerà, non a caso, il Neo di Matrix).
Mettete Joseph K in un mondo post-apocalittico e vengono fuori i romanzi di Gibson, dove non si capisce mai bene dove ci si trova, quando, perché, né dove stia il confine tra virtuale e reale.
Intanto, nello Sprawl (lo Sprawl è un'enorme città che si estende da Boston ad Atlanta), si combatte dentro complotti mai svelati, per un fine che non si conosce (a vedere l'economia globale, anche qui ci siamo), e i giapponesi della Yakuza sono ovunque. Così come viviamo protetti da antivirus e firewall, come le Contromisure Elettroniche Anti-intrusione di Gibson. (Il quale, però, avrà ripreso la possibilità di registrare la personalità su un chip ROM da George Lucas). Il visore per la realtà virtuale della Playstation è cyberpunk, e già cominciamo con il metterci qualcosa in testa. Non nella corteccia cerebrale ma quasi. È la bella differenza tra fantascienza e space fantasy: Star Wars ha influenzato molte generazioni però nel cyberpunk ci viviamo, e sollecita le visioni del futuro prossimo. Perfino Donald Trump, che se ne fotte del clima, se vogliamo è cyberpunk.
Nel cyberspazio, termine inventato da Gibson, ormai ci sguazziamo, siamo di fatto un mix tra biologico e digitale come i personaggi ibridi della trilogia. Il protagonista, Case, un hacker, un cowboy da consolle, si connette alla rete attraverso il suo sistema neurale, come facciamo già in fondo noi con le nostre protesi di smartphone, pc, tablet: se mi tolgono il wifi mi sento mancare l'aria, vorrei tanto avercelo impiantato nel cervello, voi no? In Gibson c'è il Simstim, un'interfaccia che ci permette di vivere esperienze di altri, come facciamo ogni giorno con facebook, ci manca solo un mezzo per interfacciarci meglio, sempre di più. E poi c'è tutta l'estetica cyberpunk, il futuro pieno di frammenti usurati di passato, la commistione tra antico e moderno, il predominio commerciale della Cina (pure qui, di nuovo Trump, è cyberpunk). E se vivessimo in una realtà virtuale? Potremmo mai accorgercene? È una delle domande ricorrenti nella filosofia scientifica moderna, e la risposta è no perché, come in Matrix, ogni nostra verifica sarebbe all'interno di un programma che la prevede. Come in Matrix e come nella trilogia dello Sprawl dove Case «proiettava la sua coscienza disincarnata in un'allucinazione consensuale: la matrice», chiamata proprio così, matrice.
Un pensiero del neuromante: dover morire, non sapere quanto gli resta da vivere, come il replicante interpretato da Rutger Hauer.
«Il modello» dicono a Case, «ti concede al massimo due mesi di vita, e la nostra proiezione medica prevede che avrai bisogno di un fegato nuovo entro un anno». Un fegato nuovo entro un anno di un uomo ipertecnologico, altro che Nostradamus, volendo Gibson ha anticipato perfino la morte di Steve Jobs.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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