Barillà, l’odissea di un «uomo sbagliato»

In un libro di Stefano Zurlo la vera storia dell’imprenditore simbolo della «malagiustizia»: sette anni e mezzo in carcere da innocente

Paolo Brusorio

Per farsi incastrare Daniele Barillà aveva «scelto» il periodo peggiore: era il ’92, stava scoppiando Tangentopoli e di una storia di trafficanti di droga i tribunali non sapevano che farsene. Così la giustizia imboccò la scorciatoia che finì per portare un innocente in carcere. Una tomba da cui Barillà sarebbe uscito soltanto 7 anni e mezzo dopo. Con un’azienda fallita, un padre morto di crepacuore e una fidanzata scappata.
La drammatica storia di Daniele Barillà fu seguita passo dopo passo da Stefano Zurlo, cronista giudiziario del Giornale che ora ne ha fatto un libro: L’uomo sbagliato (Albatross - Rai Eri, euro 14). Titolo anche della fiction andata in onda su Rai uno, con Beppe Fiorello nella parte di Barillà, alla cui stesura Zurlo ha collaborato. Vigilia di san Valentino. Nova Milanese è un’infilata di case e casermoni alle porte di Milano, la sera è umida e fredda. Barillà sale su una Tipo amaranto per andare dalla sua donna. Non lo sa ancora, ma sta firmando la sua condanna. Perché, quella stessa sera, la polizia sferra l’attacco a una banda di trafficanti. E uno di loro, un pesce piccolo, ha una Tipo. Amaranto. È nel codazzo delle auto pedinate, poi un cambio di strada di troppo e gli investigatori la perdono di vista. La ritrovano, o almeno credono di farlo, a Cormano. Alla guida c’è Daniele Barillà, piccolo imprenditore con una condanna per traffico di stupefacenti. Poca roba, ma il precedente ideale per farsi incastrare. Quattro giorni dopo fu arrestato Mario Chiesa: stava tirando lo sciacquone più rumoroso nella storia della prima repubblica. Se lui è stato la prima pietra di una valanga che ha travolto tutto e tutti, cosa poteva essere Barillà se non un fastidioso granello per la giustizia. La sua, era «solo» una storia di trafficanti, non faceva audience né spettacolo. Il libro di Zurlo vuole recuperare terreno. La storia di Barillà, oltre a contenere tutte le impurità di quel decennio, incrocia personaggi molto più grandi dell’imprenditore venuto dal sud. In ordine sparso: a catturarlo non fu il brigadiere pincopalla, ma il capitano Ultimo, colui che mise fine alla latitanza di Toto Riina. I Ros, i gruppi speciali dei carabinieri. Sarà Italo Ghitti, poi nel pool di Mani Pulite, a convalidare quell’arresto definendo «non casuale, ma frutto di specifici precedenti accordi la presenza di Barillà e la funzione svolta dallo stesso». Sarà un avvocato dello studio di Ignazio La Russa il primo difensore di Barillà e con lui in un secondo tempo lavorerà un legale «mandato in avanscoperta» da Giuliano Spazzali, protagonista del processo Cusani. Di Pietro e Spazzali, Spazzali e Di Pietro: per un po’agli italiani sembrarono due di casa. E sarà Francesco Saverio Borrelli, il capo del Pool di Mani Pulite, sul finire degli anni Novanta, a capire che in carcere c’era «l’uomo sbagliato». Indizi trascurati, alibi ignorati, testimonianze snobbate.

E un numero di targa a far la differenza tra la libertà e la morte civile. Sette anni e mezzo dopo la verità emerge fragorosa. Barillà «incastrato dentro questa storia a colpi di pressappoco» è libero. La «giustizia» è stata sconfitta.

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