A 2 anni e mezzo Federica Mormando aveva già imparato a leggere per conto suo. Merito di un quoziente intellettivo più che doppio rispetto alla media, cioè superiore a 200 – un caso ogni 1,5 milioni di individui – quando la curva gaussiana della popolazione mondiale si situa fra 77 e 122 punti e il presidente americano John Kennedy si fermava a 119. Ma, benché fosse figlia di un direttore didattico e di una maestra, non fu mai iscritta alla prima elementare. I genitori le fecero saltare anche la seconda, la terza e la quarta.
La madre, Vittoria Sorge, che lei definisce «una persona orribile, cattivissima, distruttiva, stupida, peggio che isterica e molto violenta», la teneva segregata in casa. A 3 anni Federica trovò un modo tutto suo per comunicare col mondo: gettava dalla finestra i giocattoli e poi stava a osservare di nascosto per ore gli scalcinati ragazzini della periferia milanese, appena uscita dalla guerra, che se li contendevano nel cortile di casa. Quando ebbe 30 anni, questi suoi coetanei la rintracciarono per invitarla a cena. «Volevano conoscermi. Scoprirono che io sapevo tutto di loro e loro non sapevano nulla di me».
Gli unici momenti spensierati della sua infanzia la Mormando li ha vissuti con la zia Giuliana Sorge, «un caratteraccio, ma adorava i bambini e le mancava la perfidia di sua sorella, mia madre». Era l’assistente di Maria Montessori, l’insigne pedagogista. Per tre mesi l’anno portava con sé la nipote nei corsi estivi che teneva in giro per l’Italia. «Avevo 5 anni e il mio compito consisteva nello spiegare alle maestre come s’insegna l’analisi logica col metodo montessoriano».
Non stupisce che a distanza di mezzo secolo da queste tribolazioni la professoressa Mormando, medico psichiatra e psicoterapeuta adleriana, dedichi la sua vita a quella che considera una vera e propria missione: scoprire la superdotazione intellettiva nei piccoli geni che né la famiglia, né i docenti, né i compagni riescono a riconoscere come tali. Aveva anche deciso di aprire una scuola tutta per loro a Milano. Andò a portare la notizia al suo maestro, lo scienziato Emilio Trabucchi, due giorni prima che spirasse. «È un bel nome», sorrise l’illustre farmacologo dal letto di morte quando lei gli annunciò che avrebbe voluto chiamarla scuola primaria Emilio Trabucchi. Poi, socchiudendo gli occhi, le disse: «La farà, la farà grande, la farà bella».
«Non potevo credere che quell’uomo profetico sbagliasse. Nel 1984 la feci, ma piccola e brutta. Era la prima in Italia e l’unica in Europa. Nel 1993 dovetti chiuderla, travolta dai debiti. Se parlavi di bambini superdotati in quegli anni, ti tacciavano di fascismo. Lo Stato non mi ha mai aiutata: nonostante fosse una scuola parificata, veniva considerata anche dal punto di vista fiscale alla stregua di una ditta privata. Mi rimane la soddisfazione d’aver accompagnato dai 3 anni fino alla quinta elementare una settantina di allievi che sono arrivati al top nel mondo del lavoro e della ricerca o stanno completando con profitto gli studi universitari».
Oggi Federica Mormando continua a occuparsi di fanciulli superdotati come responsabile per l’Italia di Eurotalent, organizzazione non governativa fondata a Parigi da Jean Brunault, uno psicologo francese padre di due figli geni. Da giugno terrà presso l’Università di Bergamo corsi di perfezionamento sugli stili didattici da adottare per valorizzare i quozienti intellettivi elevati. Ha trovato un interlocutore attento nel professor Giuseppe Bertagna, ordinario nella facoltà di scienze della formazione, la mente della riforma Moratti. «La sinistra, abbarbicata a un malinteso egualitarismo, ci ignora. Strano, visto che ad Akademgorodok, la città della scienza creata in Siberia, i sovietici avevano aperto un istituto per i ragazzi di intelligenza superiore selezionati in tutta l’Urss».
Lei come fu selezionata?
«Non lo fui. A 7 anni la mia comprensiva zietta riuscì a darmi una maestra di pianoforte. Dopo tre mesi di studio ebbi un’audizione dal direttore del Conservatorio di Parma. Il quale gridò al miracolo: “Diventerà una grande musicista”. A quel punto mia madre fu ben felice di proibirmi lo studio della musica. Finalmente venni ammessa in quinta elementare. Mi trovai malissimo. Non capivo che cosa fossero i pensierini o perché si dovessero leggere solo tre pagine del sussidiario anziché il libro intero. Mi sentivo un’idiota. Per convincere i miei a iscrivermi al liceo classico dovetti minacciare il suicidio».
Come si chiamava suo padre?
«Giuseppe».
E non interveniva mai?
«Poverino, lui era un musicista intelligente, bravo, sensibile, ma depresso. Dirigeva una scuola famosa, la Tommaso Grossi di via Montevelino. L’ha frequentata il regista Maurizio Nichetti, che ci ha ricavato il film Luna e l’altra. Papà smise di suonare il violino. Io smisi di ascoltare musica: soffrivo troppo. Oggi ho ripreso, sono al terzo anno di armonica diatonica col maestro Zoran Lupinc. Un mese fa ho passato un’intera giornata a piangere senza motivo. Poi ho compreso il perché: avevo ritrovato la sensibilità musicale e stavo rivivendo il dispiacere di allora».
Ma lei non raccontava a suo padre delle angherie subite in casa?
«I bambini maltrattati non sanno nemmeno che esiste la possibilità di parlare con qualcuno. Mia madre era una pazza furiosa, mi tirava addosso gli scaffali. Sono viva per miracolo. Avevo 5 anni quando cominciai a pensare: ce la faccio ad andar via di casa? No. A 6 anni: ce la faccio ad andar via di casa? No».
Così ogni anno.
«Ogni giorno, ogni minuto. A 14 anni i miei si divisero e io dovetti rimanere con lei. A 19 mi risposi: sì, ce la faccio. E me ne andai via per sempre. Non la rividi mai più».
Rapporto tragico.
«Tragico ma chiaro. A volte, ascoltando le storie dei miei pazienti, penso: quanto sono stata fortunata rispetto a loro! Mia madre mi odiava, è vero, lavorava per il mio male, però senza doppi o tripli messaggi. Questo mi ha permesso di salvarmi. Ci sono genitori che affettuosamente ti ammazzano».
Ha lavorato negli ospedali?
«Sono stata un anno in psichiatria al Policlinico, dove ho imparato molto di ciò che non bisogna fare, e poi al Niguarda. È stato difficile scegliere, una volta concluso il liceo: filosofia, lettere, fisica... Ho definito il mio scopo: combattere il dolore, capire le persone. Quindi medicina. L’ho odiata, ma l’ho fatta».
Perché l’ha odiata?
«Non sopporto il male degli altri e non so fare le iniezioni. Frequentavo l’Istituto di farmacologia, un moderno tempio della scienza diretto dal professor Trabucchi, fratello dell’ex ministro dc, un ingegno superiore capace di suscitare le menti, un frate generoso. Alle cinque del pomeriggio suonava il campanello e ci convocava tutti intorno a sé per il rito del tè con i biscotti. Un momento d’incontro senza gerarchie, anche se lui indossava il camice bianco. Mi mise a disposizione un romantico laboratorio tutto mio. Ma non ero tagliata per gli esperimenti sui ratti. Diventammo amici il giorno in cui il professor Paolo Mantegazza, che poi sarebbe divenuto rettore della Statale, prese il suo posto alla guida dell’istituto e diede ordine al bidello Adelmo di non servire più il tè».
Ha avuto altri maestri?
«Bruno Bettelheim. Cercò di aiutarmi. Conoscere lo psicanalista statunitense di origine austriaca e decidere di creare una struttura simile alla sua Orthogenic school fu tutt’uno. Di superdotazione a quel tempo non parlava nessuno, a parte don Calogero La Placa, parroco di Petralia Soprana, in Sicilia, che nel 1967 aveva raccolto tra le pecore una cinquantina di piccoli pastori di elevato quoziente intellettivo. Quei bambini oggi sono tutti laureati, ma il prete ha dovuto chiudere il villaggio, inseguito dai creditori. Al suo posto è stato aperto un ristorante».
Bettelheim passava per dispotico.
«Era solo molto lineare. Nella sua scuola rappresentava l’autorità assoluta. I piccoli affetti da autismo avevano bisogno di una guida, riconoscibile fin dal rumore dei passi sul pavimento. Bettelheim li ha fatti evolvere tutti verso la normalità senza usare farmaci».
E come?
«Avvalendosi della sua atroce esperienza di prigioniero nei campi di concentramento. A Dachau e Buchenwald aveva osservato che persone assolutamente normali impazzivano per il senso di totale impotenza dinanzi agli eventi. Con i suoi allievi adottò il percorso inverso: li fece sentire importanti, capaci d’incidere sull’ambiente circostante. E infatti alcuni di loro oggi occupano posti di responsabilità».
Ma lui si suicidò infilando la testa in un sacchetto di nylon.
«Aveva 86 anni, era rimasto solo dopo la morte della moglie. Un lieve ictus fu premonitore dell’impotenza che gli sarebbe derivata dalla perdita delle facoltà mentali. Non poteva accettarla».
Come si riconosce il superdotato?
«È precoce. A 3 anni sa già leggere. Fa domande articolate, che stupiscono. È realmente curioso. S’interessa ad argomenti grandi, universali: bene e male, vita e morte, giustizia e ingiustizia. La routine lo annoia. Ha un pool di capacità più ampio e modulato della media. Non è detto che sia più rapido, anche se noi, sbagliando, tendiamo a identificare la velocità con l’intelligenza. Sembra lento perché pensa».
Come vede i bimbi di oggi in generale?
«Dispersi. Disorientati. Gravati da responsabilità non loro e sollevati dalle loro. Privati del diritto a essere educati come persone forti, coraggiose, libere. Impediti nella concentrazione da mille stimoli. Affettivamente danneggiati, orfani delle figure di riferimento autorevoli. Crescono come se non avessero nulla intorno».
E i loro genitori?
«I figli dei figli del ’68? Confusi. Non pensano, o pensano poco. Sono uno sciame inquieto di consumatori senza leader, come dice il sociologo Zygmunt Bauman, teorico della “società liquida”. Inseguono le mode. Prenda lo sport, oggi di gran moda. Se io chiedo a una mamma quanto corre suo figlio, mi sento rispondere: “Nuota tre volte la settimana, fa judo e gioca a basket”. Sì, ma corre libero nel parco? Mai. Ai bambini è impedita persino la sperimentazione delle loro capacità motorie».
Non molto incoraggiante per il futuro.
«Per di più il ’68 ha inoculato l’insofferenza per le gerarchie. A questi figli prepotenti non puoi dire che in classe devono obbedire alla maestra. Credono che l’unico principio valido sia quello del piacere. Risultato: una totale mancanza di progettualità da adulti. Si sposano mettendo già in conto che divorzieranno se qualcosa andrà storto. Chi glielo spiega che i problemi si possono affrontare insieme e risolvere?».
Una coppia dello stesso sesso è in grado di educare armoniosamente un bambino?
«No».
Che cosa sa fare un superdotato?
«Non è un marziano. Per diventare quello che è deve poter imparare, magari anche leggendo di nascosto. Tita Piaz, nato nel 1879 a Pera di Fassa, aveva davanti a sé il destino di un montanaro qualsiasi. Invece è diventato uno dei più grandi alpinisti del secolo, ha aperto una cinquantina di nuove vie, ha fatto da guida ad Alberto I re del Belgio. Teneva conferenze in tedesco e scriveva sui giornali in italiano, recitava in teatro, si occupava di politica, tanto da finire in carcere durante il fascismo».
Quanti ne ha conosciuti come lui?
«La percentuale è fissa: tre bambini su 100 hanno un quoziente intellettivo elevato. In classe si stufano, a meno che non trovino insegnanti illuminati. Quelli pervasi da un grande desiderio di popolarità abbassano le ali per rendersi simpatici alla maggioranza dei compagni. Si sentono diversi, inadeguati, incompresi e spesso finiscono con l’andar male a scuola. Purtroppo s’è realizzata la profezia di Gramsci».
Cioè?
«La cultura per tutti diventa una sub cultura».
La cultura dev’essere appannaggio di pochi?
«Tutto è appannaggio di pochi, anche l’agricoltura quando è fatta bene. Niente può essere di tutti, men che meno la cultura, che richiede severità, applicazione, tempo e dedizione da parte dei docenti. Questa sub cultura che vorrebbe dare a tutti il massimo in realtà non assicura a nessuno neppure il minimo».
Se i bambini superdotati hanno bisogno di attenzioni speciali, allora la chiusura delle scuole differenziali per quelli disabili fu un passo avanti o indietro?
«Fu un tradimento. Nel 1976 s’inventarono le insegnanti di sostegno, prive di qualsiasi competenza specifica, e misero insieme bambini normali e bambini con problemi gravissimi. Uno sbaglio terribile. Molti tipi di handicap hanno assoluto bisogno di ambienti diversi, materiali diversi, docenti diversi. È assurdo costringere questi alunni allo stile di vita della maggioranza».
Sempre più bambini finiscono in cura dallo psicologo. Come si spiega?
«Gli adulti non sopportano più niente. Se gli muore una persona cara prendono gli psicofarmaci perché non vogliono sentirsi tristi. Se un figlio è agitato o va male a scuola ha sicuramente bisogno del medico. Non sopportiamo più la vita: il lavoro è faticoso, l’insonnia è un problema grave, siamo sani ma abbiamo paura di ammalarci e la paura è un altro problema, salire su un aereo ci provoca attacchi di panico. Non capisco per quale motivo. Io reputo assolutamente naturale una sana diffidenza per un tubo in cui si sta chiusi ore e ore, sospesi a 8.000 metri dal suolo».
La Tv accende i cervelli o li spegne?
«Non permette di accenderli».
Ha senso far ripetere l’anno a un bambino della scuola primaria?
«Sì. Ha senso bocciare per farglielo ripetere bene. Ma non ha senso se si dà alla bocciatura una valenza punitiva».
Chi è più intelligente non sempre è più felice. Anzi, il suo collega Vittorino Andreoli sostiene che solo gli idioti sono felici.
«Dissento. Ma forse non ho visto abbastanza idioti».
(371. Continua)
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