Bruno, l’ultimo italiano di Tripoli che fa la guardia ai nostri morti

Il custode del cimitero dove riposano 6.500 connazionali ha resistito pure alla cacciata del 1970: "E non me ne andrò neanche adesso"

Bruno, l’ultimo italiano di Tripoli 
che fa la guardia ai nostri morti

Tripoli - Un tè nel deserto con Gheddafi, le bombe america­ne sul bunker del colonnello, la rivolta contro il regime sono so­lo alcune delle avventure di Bruno Dalmasso, uno degli ul­timi italiani di Tripoli. A 77 anni, con un berretto az­zurro dell­'Italia e le quattro stel­le di campione del mondo, Dal­masso ci accoglie nel cimitero, di cui è il custode, che ospita i resti di 6499 connazionali. Una piccola oasi di pace nella capi­tale li­bica dove riposano giova­ni patrioti massacrati dagli otto­mani, principessine d'altri tem­pi e gente comune dal periodo coloniale a oggi. In una cripta è rimasta intatta la storica lapide del maresciallo dell'aria «Italo Balbo quadrumviro governato­re generale della Libia ». Abbat­tuto, ufficialmente per sbaglio, «nel cielo di Tobruch 28-6-1940», come si legge sul marmo bianco. Dalmasso è nato a Bordighe­ra, ma ama ricordare di essere stato «concepito in Eritrea» ai tempi delle colonie. Nell'Africa orientale ci sarebbe rimasto per sempre se Menghistu Hai­le Mariam, non avesse preso il potere con un golpe. «Lo cono­scevo bene, ma è acqua passa­ta », racconta Dalmasso, che proprio dal dittatore etiopico in persona si è beccato una gra­gnuola di calci, dopo essere sta­to sbattuto in galera perché filo eritreo e poi rispedito in Italia. Dalmasso resiste in Italia due mesi e il mal d'Africa lo por­ta in Libia a dirigere un cantie­re a Bengum, l'anticamera dell' inferno in mezzo al deserto: «I libici lo chiamano “il posto del vento”e ci sono ancora i resti di un forte italiano del 1913». Un giorno arriva un giovane uffi­ciale al volante di un maggioli­no. «Era il colonnello Gheddafi - racconta il veterano della Li­bia- Ci siamo messi a prendere un chai (il tè) nel deserto. Era giovane, gioviale, rideva. Pen­s­o che per il suo paese abbia fat­to molto. Io ho visto come la Li­bia è cresciuta e si è sviluppa­ta ». Dalmasso parla ed è come se scorresse la storia. Nel 1986 quando il presidente america­no Ronald Reagan ordina di bombardare il regno di Ghed­dafi lui abita a 600 metri da Bab al Azizia, la cittadella fortificata del colonnello nel cuore di Tri­poli. «Il 15 aprile, alle due di not­te, le squadriglie sono arrivate dal mare. Il cielo era rosso per i traccianti della contraerea - ri­corda Dalmasso - Le prime bombe hanno incenerito la ca­sa di Abu Nidal ( il terrorista pa­lestinese mandante dalla stra­ge di Fiumicino del 1985 e di al­tri sanguinosi attentati nda)». Poi è toccato al bunker di Ghed­dafi. «Una bomba sola, di una tonnellata dicevano, è piomba­ta giù come un colpo secco se­guito da un boato fortissimo e da una luce, come un gigante­sco flash nel buio della notte». In quegli anni Dalmasso va spesso al cimitero, mezzo ab­bandonato dopo la cacciata de­gli italiani nel 1970, per leggere le lapidi sepolte dalle erbacce. Il posto si chiama Hammangi, che significa bagno turco. Con la compagna etiopica, Aber­sah Tegu Mari, comincia a rie­sumare e catalogare i connazio­nali sepolti a Tripoli e nel resto della Libia. I resti di 28mila mili­tari, che Gheddafi non voleva, compresi 5mila ascari eritrei che hanno combattuto al no­stro fianco, sono stati traslati al sacrario militare d'oltremare di Bari. Per il suo impegno Dalmas­so è stato nominato Cavaliere della Repubblica e neppure nei giorni della rivolta abban­dona il cimitero italiano: «Con le tombe ci aiutavano dei ma­novali egiziani, ma sono scap­pati quando è iniziata la rivolta -si rammarica il connazionale-Il 17 febbraio il consolato ci ha consigliato di restare chiusi in casa, ma nessuno si aspettava una sollevazione del genere». Anche Dalmasso, come molti libici della capitale, se la pren­de con i media: «Quando ho sentito che stavano bombar­dando il centro della capitale mi è preso un colpo: sono pas­sato in macchina proprio dove avrebbe dovuto esserci la stra­ge, ma non c’era un solo segno dell'intervento aereo. Era una balla». Nei giorni della rivolta a Tripoli gli amici libici lo «scorta­no » al cimitero. La sua targa ha il numero 15, quello degli italia­ni e qualche scalmanato po­trebbe prenderla a sassate. «Ha ragione il ministro Maro­ni: gli americani se ne stiano fuori - sbotta Dalmasso - Se la Nato o gli Stati Uniti intervengo­no si rischia un altro Afghani­stan. Devono risolverla fra libi­ci. In fondo a nessuno convie­ne la secessione, con il gas a ovest ed il petrolio a est». Il peri­colo della valanga migratoria è concreto: «Sono centinaia di migliaia gli immigrati africani in fuga dalla Libia con il mirag­gio dell'Italia». Aiutandosi con un bastone Dalmasso tra le tombe. I resti dei 6499 italiani riposano in lo­cul­i divisi per lettera dell'alfabe­to con un numero inciso sul marmo. Il numero corrispon­de al nome riportato su grandi lastre trasparenti appese alla parete. Quaglio Maria, Patanè Bruno, Campagna Carmela si legge scoprendo che i primi commercianti italiani in que­sta fetta d'Africa furono sepolti nel 1831. Gastone Terreni era un patriota anti turco di vent' anni massacrato dagli ottoma­ni il 21 giugno 1908. Ancora pri­ma, nel 1879, la principessina Zenaide De Goyzueta, figlia dei marchesi di Toverena morì a soli 10 anni, 3 mesi e 20 giorni. Suo padre, nobile napoletano, era console di Umberto I re d'Italia. La madre si chiamava Livia Rimsky-Korsakov, sorel­la del grande compositore rus­so. La salma di Balbo è stata ri­portata in patria e sepolta ad Or­betello, ma a Tripoli si conserva gelosamente la lapide. L'ulti­ma tomba italiana è del 2008. Sul marmo bianco si legge: An­namaria Buzzi di Milano. Dalla storia del cimitero italia­no­salta fuori una vicenda incre­dibile, quella di un Hannibal il cannibale italiano, mai identifi­cato perché cacciato con altri connazionali, che utilizzava carne umana per le salsicce. Nella cripta della cappella è sepolta anche Innocente Hali­ma, una suora che prima era musulmana. Il regime ha fatto levare il Cristo della grande cro­ce­in ferro all'ingresso del cimi­tero, perché urta le credenze islamiche. Dalmasso aveva la possibili­tà di lasciare la Libia in rivolta con l'evacuazione degli altri 1400 connazionali. «Ho detto di no. La Libia è il mio paese­spiega - Mi hanno accettato e rispettato per 36 anni. Non mi sembra giusto abbandonare i li­bici nel momento del pericolo. Se la situazione precipitasse di­viderò il loro destino.

A 77 anni non ho paura di nulla». www.faustobiloslavo.eu PATRIA Ha 77 anni e non si separa mai dal cappellino con i colori della Nazionale TESTIMONE «Di dittatori me ne intendo. Ne ho visti tanti: da Menghistu a Gheddafi»

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