«La camera del Duce non mi basta: voglio rifare la sua testa sul monte»

Passati 70 anni, i pochi abitanti della Gola del Furlo, orrido di straordinaria bellezza che strozza la via Flaminia tra Fano e Acqualagna, campano ancora di rendita sulle necessità corporali di Sua Eccellenza il cavalier Benito Mussolini, che transitava per questo valico appenninico nel tragitto da Roma alla natia Predappio. Ad Alberto Melagrana, proprietario e chef dell’albergo Antico Furlo dove il Duce pernottò per 56 volte, sono toccati il letto su cui riposava Lui, il lavabo in cui si sciacquava la faccia Lui e la coperta di lana grezza intrecciata con cui si riparava dal freddo Lui, più pesante dell’armatura di Carlo V conservata nell’Armeria reale di Madrid. Agli eredi Candiracci, titolari dell’attiguo bar, resta la sala da pranzo in cui desinava Lui. Così ha stabilito il tribunale di Urbino.
Le gestioni separate rendono difficoltosi i rapporti fra zona notte e zona giorno. Chi beve un caffè o ingolla un grappino al bar è abilitato ad accedere al tinello dove consumava i pasti il capo del fascismo, ma non alla camera in cui dormiva. Per visitare la quale bisogna quantomeno mangiare al ristorante i «tagliolini alla Benito Mussolini» – col tartufo nero, ovvio – che in questa stagione cedono il passo a quelli con la grattatina di tartufo bianco, 35 euro.
La camera «Mussolini» ha i muri ricoperti di graffiti bipartisan: a «Viva il Duce» e «A morte il comunismo» fa da contraltare «Morte al fascio» ripetuto due volte. Siamo o non siamo in democrazia? Seguono nomi di coppie, date di fatidiche notti d’amore e un «Ritorneremo», non è ben chiaro se con riferimento alla ricostituzione del partito fascista o all’auspicio di una gita futura. All’insegna del politically correct anche l’intitolazione della camera di fronte, che si chiama «Mattei», in onore di Enrico Mattei, il partigiano originario di Acqualagna che fondò l’Eni. In realtà avrebbero dovuto battezzarla «Togliatti»: fu lì, nella stanza numero 7, che il segretario del Pci soggiornò per due giorni di ritorno dall’Urss.
Il pensionato Raimondo Lecci, detto Mondo, 85 anni, nipote di Domenico Candiracci, detto Menchino, proprietario dell’Antico Furlo a quel tempo, ha fatto da cameriere sia al Duce sia al Migliore. «Ricordo che a Togliatti dovetti portare in stanza un tavolo: scriveva molto e gli serviva un piano d’appoggio. Mio zio gli disse: “Chiunque avvicinasse Mussolini, non poteva non seguirlo”. Il caporione comunista tacque. Chi tace acconsente».
Agli avventori Melagrana offre sopra il conto la possibilità di ammirare le uova della buonanima, racchiuse dentro una boccia di vetro verde che funge anche da lampadario nella prima saletta della trattoria. A scanso d’equivoci, va precisato che trattasi di gusci rotti da Lui. Sembra il deposito di Jurassic Park. Quanti saranno? Cinquanta? Cento? Ci vorrebbe Raffaella Carrà, che se la cavava così bene con i fagioli nel vaso. Le contadine facevano a gara per porgere i cocchi appena deposti dalle galline. «Duce, Duce, prendete il mio uovo, è il più fresco: sentite, ancora caldo!», era l’ossimoro di rito. Lui controllava la temperatura nel palmo della mano, annuiva, estraeva di tasca il coltello a serramanico e con la punta della lama, zac e zac, due buchi alle estremità, poi portava alla bocca la fenditura più generosa: albume e tuorlo finivano risucchiati in un nanosecondo nella mascella volitiva. Non erano tempi di salmonelle, quelli, e neanche d’influenza aviaria.
«Eh, lui aveva proprio un debole per le uova», si commuove Melagrana. Una sera pretese che la cuoca del Furlo gliene preparasse ben 12 sotto forma di frittata. Si rigirò nel letto fino all’alba. Il vomito incoercibile e la diarrea imperiosa che lo colsero il giorno seguente diedero luogo a un’ispezione della Milizia per la sicurezza nazionale: uno zelante centurione di Pesaro, appreso dell’imbarazzo intestinale, aveva pensato a un avvelenamento premeditato.
Ma tutte queste vestigia della ducesca corporeità alla gente del Furlo non bastano più. Adesso Melagrana, un omone di 53 anni e di 122 chili, col pizzetto alla Italo Balbo, s’è messo in testa di far ricostruire per la gioia dei turisti nostalgici il profilo di Mussolini, che fino al primo dopoguerra decorava la cresta più alta del Pietralata, il monte che insieme col Paganuccio (li separa una spaccatura verticale) forma la Gola dentro cui scorrono il fiume Candigliano e la strada consolare.
Per uno scherzo di natura, l’ultima balza del Pietralata in origine già di suo ricordava un po’ la faccia del Duce. La Milizia forestale volle fare una sorpresa al capo del governo e dal 1934 al 1936 lavorò per accentuare i connotati: un muretto a secco conferì marzialità al naso, un altro esaltò le labbra tumide, un terzo rese ancora più prominente la maschia mandibola. Risultato: una gigantesca silhouette del Capoccione rivolta verso il cielo, tale da potersi distinguere a chilometri di distanza. Ma dopo che il titolare fu appeso a testa in giù a piazzale Loreto, anche il simulacro lapideo fece una brutta fine.
A colpi di dinamite, mi è stato detto. Provvide la brigata Majella, unità partigiana nata in Abruzzo.
«Tutte balle. Come quella che il primo a minarlo sarebbe stato il partigiano Bruno Bocchio dopo l’8 settembre. La vera storia se la deve far raccontare da Raimondo Lecci, il cameriere che serviva il Duce. Le cose andarono così. Finita la guerra, Adele Bei, deputata del Pci nativa di Cantiano, riteneva scandaloso che il profilo di Mussolini ornasse la montagna. La Provincia socialcomunista di Pesaro non voleva però mettere a bilancio la spesa per farla demolire. Così s’accordò sottobanco con i cavatori di pietra della zona, che reclamavano una strada per raggiungere la sommità della montagna: voi ci buttate giù la faccia del Duce e noi vi sistemiamo la viabilità. E così avvenne, senza bisogno di cannonate partigiane».
Dio stramaledica gli scalpellini.
«Caro mio, qui si estrae da sempre la pietra rosa, un marmo pregiato che serve per fare i camini nelle ville dei miliardari di mezzo mondo».
Come mai Mussolini per andare a Roma passava dal Furlo?
«Per secoli la Romagna e le Tre Venezie hanno sempre usato la Flaminia, la via più breve di collegamento fra Adriatico e Tirreno. Questa era una delle poste più importanti per il cambio dei cavalli. Il Duce fece installare il primo telefono pubblico e Domenico Candiracci, per sdebitarsi, gli consegnò le chiavi della camera al primo piano».
La stanza divenne proprietà di Mussolini?
«Certo. Infatti i mobili in stile Impero provengono da Palazzo Venezia, da una delle otto stanze per gli ospiti. Il capo del governo ordinò di portarli qui per renderla più confortevole».
Ci dormiva da solo o in compagnia?
«La leggenda vuole che ci portasse le amanti. Ma il vecchio Mondo e la Floride Candiracci, che ha superato anche lei gli 80, giurano d’averlo visto sempre da solo oppure con moglie e figli quando spezzava il viaggio per raggiungere Villa Mussolini a Riccione, la casa di vacanza acquistata da donna Rachele nel 1934. A volte il Duce si divertiva a guidare un’Alfa Romeo 2300 GT spider di colore rosso, mentre la famiglia lo seguiva sulle auto scortate dalla Milizia».
Perché si chiama Furlo?
«Dal latino forolus, foro. Prende il nome dalla galleria fatta scavare dal censore Caio Flaminio durante la costruzione della strada nel 220 avanti Cristo. Ci passarono gli elefanti di Pirro per andare alla battaglia che tinse del sangue dei cartaginesi le acque del Metauro».
Pirro? Forse era Asdrubale.
(Schiocca le dita). «Ci hai ragione pure. Poi fu sostituita dal traforo più lungo realizzato nel 76 dopo Cristo, per ordine dell’imperatore Vespasiano, con tanto aceto e tanto olio di gomito».
Aceto?
«È roccia calcarea. L’aceto è corrosivo, aiutò a scavarla».
Lei è nato al Furlo?
«No, a Fano. Qui arrivai nel 1990, quando i Candiracci, proprietari dell’albergo dal 1825, decisero di vendere. Prima ho lavorato all’hotel Santa Cristina di Numana, che allora era di proprietà del Vaticano, al mitico Savoy di Londra e al Bristol di Parigi, di fronte all’Eliseo».
Per quale motivo vorrebbe che venisse ricostruito il volto del Duce sul Pietralata?
«Ho preso in prestito dalle banche un miliardo e mezzo di vecchie lire per restaurare il ristorante e sette delle 14 camere. Mi spiego? Verrebbero turisti da tutta Italia per vederlo».
Come fa a esserne così sicuro?
«Già adesso ne arrivano molti, convinti di trovare una testa come quelle dei presidenti americani Washington, Jefferson, Roosevelt e Lincoln scolpite sul monte Rushmore nel South Dakota».
Invece trovano quattro sassi.
«Che poi, parliamoci chiaro, a lui neanche piaceva quella sagoma in posizione supina. Quando gliela mostrarono, storse il naso: pareva che fosse coricato a letto. “Il Duce non dorme mai”, strapazzò i volonterosi della Milizia forestale».
Due anni di lavoro sprecati.
«Eh, ma quella era gente che non si tirava mica indietro quando c’era da farsi su le maniche. Pensi solo ai viottoli tagliafuoco che scavarono su tutto l’Appennino per impedire il propagarsi delle fiamme in caso d’incendio. Adesso che comandano i verdi rischiamo di bruciare vivi da un momento all’altro».
A chi ha esposto il suo ardito progetto?
«Una sera erano qui a cena il sindaco di Acqualagna, Bruno Capanna, Ds, la vicepresidente della Provincia, Elisabetta Foschi, An, e il mio amico Massimo Berloni, l’imprenditore che a Fossombrone produce i jeans Dondup. Abbiamo spiegato a Capanna che sarebbe di vitale importanza, per il Furlo, riavere il profilo di Mussolini. Sulle prime sembrava d’accordo, perché vuol bene al posto. Ma poi ha lasciato cadere la proposta. Quando lo incontro per strada e gli chiedo della faccia del Duce, mi fa un sorriso e gira la testa dall’altra parte».
Le teste sono un problema per lei.
«Ma guardi che l’idea è vecchia. Se ne parlò anche a Portobello. Il sindaco democristiano Ovidio Lucciarini, che governò Acqualagna dal 1960 al 1995, sarebbe stato anche d’accordo. Solo che quella volta si mise di mezzo Bruno Gori, marito della Floride Candiracci, il quale andò da Enzo Tortora a dire che la cosa non s’aveva da fare. Per forza: è di Rifondazione comunista! Vorrei vedere come camperebbe se avesse ancora il chiosco delle aranciate».
Ha dovuto sopportare qualche rappresaglia per la sua iniziativa?
«I più benevoli dicono: “Che cosa ci avrà nella testa quello lì?”. Da bravo oste devo starmene dentro le mie. Non sono iscritto a nessun partito. Servo clienti di destra e di sinistra».
Luciano Canfora, storico di sinistra, sostiene che la sua idea va contro le leggi che vietano l’adozione di simboli inneggianti al Duce.
«L’Italia aveva un’unica industria che funzionava: il turismo. Questi sciagurati la stanno ammazzando. Finché non salteranno fuori le prove del cosiddetto tesoro di Mussolini, stiamo parlando di un morto appeso per i piedi dalle cui tasche non scivolò fuori neppure una lira. Ad Antrodoco, provincia di Rieti, il Comune ha affidato a una cooperativa il compito di ricomporre con gli alberi la scritta “Dux” che durante il Ventennio si scorgeva nella pineta sul monte Giano. Disegnata pure quella dalla Milizia forestale, nel 1939. Hanno avuto addirittura 260 milioni di lire di finanziamento dalla Regione Lazio e nessuno ha fiatato».
Ma lì governava Francesco Storace.
«Non vuol mica dire, sa? Anch’io mi aspettavo un po’ d’appoggio dagli ex missini. Silenzio assoluto. E sì che nel gennaio del 1990, di ritorno dal congresso nazionale di Rimini che elesse Pino Rauti segretario del Msi, erano tutti a mangiare qui: Gianfranco Fini al tavolo dove ora è seduto lei, con donna Assunta, la vedova di Giorgio Almirante, e laggiù in fondo Rauti. I delegati entravano facendo il saluto romano. Quante se ne sono dette! “Ladro! Dove li hai rubati i 47 voti?”. Roba del genere».
La buonanima li avrebbe messi in riga.
«Oggi un Fini non si espone di sicuro per rifare la testa del Duce».
Più facile che si esponga un diessino.
«Almeno il sindaco di Acqualagna ci ha provato. Però mi risulta che la Marinella Topi, sindachessa diessina di Fermignano, oggi consigliera provinciale, abbia detto: “Ci penso io a richiamare all’ordine il Capanna!”».
Che c’entra Fermignano?
«Il Passo del Furlo è suddiviso fra quattro Comuni: Acqualagna, Fermignano, Fossombrone, Cagli. E come il cane con quattro padroni muore di fame. Adesso poi che hanno inventato il Parco del Furlo, di male in peggio».
Cioè?
«Il Candigliano, che sfocia nel Metauro, è pieno di trote e di carpe. I pescatori s’accontentavano di scattarsi la foto ricordo e poi le ributtavano nel fiume. Più ecologici di così! Vietato. Dal Pietralata i deltaplanisti si lanciavano per il volo pindarico. Vietato. Qui c’era la palestra di roccia del Cai di Pesaro. Vietata. Mi dica lei come si fa a creare economia».
Be’, vi resta il tartufo, dài.
«Per fortuna che quello c’è tutto l’anno. Dal 1° ottobre al 31 dicembre il bianco, Tuber magnatum Pico, il più pregiato; dal 1° dicembre al 15 marzo il tartufo nero pregiato, Tuber melanosporum Vitt; dal 15 gennaio al 30 aprile, il tartufo bianchetto o marzuolo; dal 1° maggio al 31 dicembre, il tartufo nero estivo o scorzone. Ma vuol mettere se insieme col tartufo potessimo darci da mangiare alla gente anche una fetta di storia? Su dieci che arrivano, sette chiedono la camera “Mussolini”, cosa crede?».
E che commenti fanno?
«Molti piangono tenendo una mano sulla testiera del letto».
Immagino che lo scrittore Stefano Benni e il campione di motociclismo Valentino Rossi non siano venuti per vedere la camera.
«Ah no, i Vip sono attirati dal tartufo, si capisce. Così come un tempo Sophia Loren, Gina Lollobrigida, Roberto Rossellini, Nino Manfredi venivano apposta da Roma per mangiare il fegato di maiale in reticella qui al Furlo e il pesce alla Lanterna azzurra del cavalier Raffaele Vagnini a Fano. Vittorio Gassman ai tempi del Sorpasso arrivava col Duetto: andava a trovare una pseudomora a Senigallia».
Quanto costa il tartufo bianco?
«Dipende. Ogni esemplare ha una quotazione a sé stante. Si va dai 120 ai 300 euro l’etto. Ma i tartufi grandi, come quello da un chilo e 40 grammi trovato nei giorni scorsi, non hanno prezzo, toccano i 6.000 euro al chilo».
Quanti se ne raccolgono in un anno?
«Dai 500 ai 700 chili. I due terzi del mercato nazionale li fa Acqualagna. Altro che Alba!».
Un esercito di cercatori.
«Quelli col patentino in provincia di Pesaro sono 11.000. Ma i professionisti non superano i 200».
Patate cinesi che del tartufo hanno solo il profumo dato con lo spray ce ne sono in circolazione?
«Il bianco non si può né clonare né imitare. Al massimo la truffa consiste nello spacciare a marzo il bianchetto per bianco. Ma il consumatore avveduto sa perfettamente che non è stagione».
Mussolini amava il tartufo?
«Quello nero».
Naturalmente.
«Appena arrivava, gli porgevano il brodo bollente nella scodella. “C’è niente da metterci dentro?”, chiedeva. Andava in cucina, apriva la madia dove sapeva di trovare i ritagli avanzati delle tagliatelle, li sbriciolava con le mani e li lasciava cadere nella tazza. Poi ci rompeva dentro un uovo. Una grattata di scorzone, una spolverata di parmigiano e via».
È vero che i tartufi sono afrodisiaci?
«Qui siamo al punto. Il sindaco dice che fanno meglio del Viagra. Però costano anche di più, dico io».
Peccato che non si possano coltivare come i funghi champignon.


«Però il Centro di tartuficoltura di Sant’Angelo in Vado, diretto dal mio amico Luigi Gregori, un professorone, inserendo le spore giuste nel terreno riesce a favorire la micorriza, cioè la simbiosi formata dalle radici degli alberi e dai tartufi, e dopo sette anni la produzione in quell’area aumenta dal 20 al 40 per cento. Fu il Duce a far realizzare la prima tartufaia naturale d’Italia, proprio sul Pietralata».
Lui c’entra sempre.
«Sempre».
(351. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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