Spero che il ministro Paola Severino e Mario Monti capiscano che sulla giustizia in Italia non si scherza. In fondo, tutto quello che è successo negli ultimi vent’anni (e forse trenta)dipende dal crollo della giustizia. Se siamo arrivati prima a cancellare i partiti che avevano firmato la Costituzione, Craxi trattato come un ladro e Andreotti come un assassino, poi a obliterare in un fiat il sistema politico maggioritario che aveva costruito l’alternanza politica alla guida dello stato, mettendo al governo tecnici non eletti garantiti da una maggioranza non prevista dagli elettori, non voluta da loro, è per via della inaudita crisi della giustizia nei suoi rapporti con i cittadini e con la politica. Gli aspetti patologici del dramma italiano, compresa l’incapacità dell’opposizione di farsi alternativa, e del centro sinistra di farsi governo, risalgono tutti al gran teatro di processi assurdi, che hanno occupato la scena e si sono imposti come coscienza pubblica ideologizzata. I magistrati d’assalto senza l’aura mediatica e il tradimento dei chierici sarebbero stati nulla. I media intesi come gogna del cittadino e della rappresentanza politica, senza giudici sarebbero stati nulla. Insieme, sono stati l’alfa e l’omega della lotta politica in Italia, e per tre decenni o quasi. I tecnici oggi al governo sono secondo me persone serie. Non possono raccontarsela come se a informarli fossero i giornalisti pistaroli a senso unico e gli editorialisti manettari travestiti da Repubblica delle idee. In Italia c’è da sempre un alto tasso di corruzione, la «corruttela» di cui parlava il grande storico della letteratura e della mentalità nazionale Francesco De Sanctis, che crea sfiducia e seminacinismo, che rende difficile un progetto molto ambizioso come quello di cambiare il carattere degli italiani, per quanto siano sacrosanti o comunque necessari i suoi presupposti in un’epoca in cui mercati, società e criteri di organizzazione del pubblico tendono a omologarsi.
Ma il nostro problema veroè il disdoro in cui è finita la giustizia dopo che ha scelto diessere il proprio opposto: una infinita campagna per punire gli avversari politici, con una spontanea regia molto spettacolare degli eventi, nel segno prepotente di élite indipendenti dal controllo democratico, di costituzionalità e legalità dei loro comportamenti. I magistrati italiani, qualunque cosa facciano, comunque si comportino, sono impuniti, anzi impunibili, come i media a loro affratellati, e costituiscono una casta intoccabile e irresponsabile, che cresce all’ombra di una cultura che non è quella della giurisdizione bensì quella di una rivoluzione etica e di una riscrittura storica parziale e faziosa della vita della Repubblica ( e non mi riferisco a quella delle idee, parlo di fatti).
Il professor Conso è un prototecnico. Ha lo stesso prestigio nel suo campo giuridico di un Monti nell’economia. È il classico galantuomo. La procura di Palermo, senza la firma di un pilatesco procuratore capo, senza la firma di un pm coraggioso, con il dissenso aperto e felicemente scandaloso del vicecapo della Procura di Roma, tratta questo prototecnico come un delinquente, mostra il bisogno ideologico della reductio ad unum giudiziaria, tutti mafiosi o amici dei mafiosi: Massimo Ciancimino è un’icona dell’antimafia per il dottor Ingroia e per i suoi assistenti televisivi Santoro & C., quali che siano lepatacche calunniose che è capace di rifilare; ma Conso è un attore criminale di una storia criminaleil cui vero oggetto è tuttora misterioso, alla chiusura delle indagini: la famigerata trattativa tra stato e mafia di cui sarebbe stato vittima il giudice Paolo Borsellino, e che si sarebbe accompagnata a un disegno stragista che è il primo nucleo dell’ascesa al potere di Berlusconi. Una cosa grottesca, una faccenda loschissima in cui ad andarci di mezzo è l’insieme di libere scelte, e responsabili, di governi e generali dei carabinieri, tutti chiamati a rispondere del nulla giudiziario e penale per aver combattuto, in realtà, la mafia e averne arrestato i principali capi cupola, a partire da Totò Riina.
Per avere detto queste cose, giornalisti non ammassati nella versione ufficiale e procuratizia sono intimiditi da querele e malmostose inimicizie pubbliche. Mentre vivono in un’atmosfera eroica e di martirio i gazzettieri che hanno tenuto e tengono bordone alla bisogna, e rendono possibile un’azione processuale il cui risvolto sono i comizi con la mano in tasca, l’elezione populista a sindaco di magistrati in fregola di politica quando hanno la toga addosso, e varie altre oscenità civili. Il presidente del Consiglio dovrebbe ricordare che chi in Parlamento lo ha dichiarato oltraggiosamente colpevole dei suicidi cosiddetti «economici» è il primo e storico portavoce di questa idea giustizialista della magistratura, quel Di Pietro che lasciò in circostanze mai sufficientemente chiarite la toga, fondò un partito all’insegna del programma, rivelato dal suo capo Francesco Saverio Borrelli, e sintetizzato nella frase da lui pronunciata in riferimento a Berlusconi: «Io a quello lo sfascio».
Uno dei motivi per cui con realismo penso che la soluzione Monti abbia dato e possa dare, errori a parte e obiezione di principio a parte, qualcosa di importante a questo paese, è la lontananza della compagine e dei suoi membri dalla cultura forcaiola: non ricordo una sola occasione in cui i tipi alla Monti e Severino abbiano avuto indulgenza per gli atteggiamenti miserabili e sprezzanti di odio moralista verso le classi dirigenti. Non è quella la loro attitudine, non sono della pasta dei mozzorecchi. Spero che capiscano quanto sia importante non dargliela vinta, quanto sia decisivo battere la corruzione prima di tutto sconfiggendo il trauma e la follia di un sistema, di un apparato castale, di una impunità tantoingiusta che sta calcando con tragico successo le scene italiane da così tanto tempo. Spero che sulla responsabilità civile dei magistrati e sulla necessità di definire un sistema anti- impunità nel loro autogoverno, che ricade sotto la giurisdizione del Guardasigilli e del Presidente della Repubblica, i tecnici si comportino da persone serie.
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