La carità uccide l’Africa, il mercato la salverà

Un saggio dell’economista Dambisa Moyo racconta come gli aiuti dell’Occidente devastino il Terzo mondo. Si salvano le nazioni in cui l’imprenditoria fa da sola o dove arrivano i cinesi e il loro fiuto per gli affari

La carità uccide l’Africa, il mercato la salverà

In principio fu Peter Bauer, un economista inglese (di origine ungherese) che nel 1983 Margaret Thatcher portò alla camera dei Lord per i suoi studi controcorrente in tema di economia dello sviluppo. A Bauer - di cui IBL Libri ha di recente pubblicato un’antologia, Dalla sussistenza allo scambio (con prefazione di Amartya Sen) - si devono i primi pionieristici studi contro gli aiuti che inondano di denaro pubblico il Terzo Mondo, causando gravissimi danni. Ma ora la lezione di Bauer inizia a dare frutti, come attesta l’emergere di intellettuali africani che vanno proponendo una via liberale alla prosperità: proponendo uno sviluppo dal basso. La ricetta, insomma, è meno aiuti e più investimenti esteri, più micro-credito, più opportunità per chi vuole esportare.

Una tra le espressioni migliori di questa nuova Africa vogliosa di mercato è una ricercatrice originaria dello Zambia, Dambisa Moyo, che dopo gli studi a Harvard e Oxford ha lavorato alla Goldman Sachs e ora ha pubblicato un volume intitolato La carità che uccide. Come gli aiuti dell'Occidente stanno devastando il Terzo Mondo (edito da Rizzoli, 260 pagine, 18,50 euro), che punta il dito anche contro le star dell’assistenzialismo planetario.

La Moyo, che lunedì sarà a Milano su invito dell’Istituto Bruno Leoni per presentare il proprio libro e difendere la sua visione di un’Africa aperta al capitalismo, non a caso ha dedicato il testo a Bauer, che per primo ebbe il merito di denunciare come il sistema degli aiuti rafforzi i regimi dispotici, affievolisca gli incentivi a intraprendere e ad ampliare gli spazi di mercato, proietti le economie più povere verso una totale passività. Senza considerare che in genere il trasferimento prende la forma del prestito di favore e in tal modo trascina le nazioni più derelitte nella spirale perversa di un indebitamento destinato a crescere esponenzialmente. Quasi senza accorgersene, ci si trova intrappolati e senza futuro.

La Moyo non teme di mettere in discussione molti miti: a partire da quello dello Stato democratico. Quando in Occidente si parla dei Paesi in via di sviluppo sembra che la prima urgenza non consista nel radicarvi la proprietà privata e il mercato, ma invece nel trapiantare a quelle latitudini un modello politico che è stato il frutto di un’evoluzione tipicamente europea e durata molti secoli. In altre parole, per la studiosa zambiese in Africa c’è primariamente bisogno di meno Stato, e non già di più democrazia: soprattutto se si considera che le nostre istituzioni sono limitate nella loro capacità di fare danni da un complesso di relazioni economiche e da una rete di istituzioni sociali le quali impediscono al potere di assorbire in sé ogni cosa.

In Africa, però, la società è molto più frammentata: per ragioni etniche, ma anche per le caratteristiche dell’economia e dei sistemi di comunicazione. Paracadutare lì lo Stato di tradizione francese ha posto le premesse per regimi spesso criminali. D’altra parte, nemmeno gli stessi programmi di aiuto hanno ignorato la Liberia di Samuel Doe, lo Zimbabwe di Robert Mugabe, l’Uganda di Idi Min o la Repubblica Centrafricana di Bokassa, a cui Werner Herzog vent’anni fa dedicò un film eccezionale, in cui compaiono formidabili sequenze su quell’incoronazione del 1977 che costò la bellezza di 22 milioni di dollari.

Naturalmente la Moyo non demonizza gli aiuti privati. La sua attenzione, invece, è tutta per i programmi degli Stati occidentali e delle organizzazioni internazionali, che hanno l’effetto di rafforzare ulteriormente quel potere politico che già controlla tutto. Perché i finanziamenti da Stato a Stato consolidano proprio i regimi che sbarrano la strada a chi vuole intraprendere: si pensi che, in Africa, molto spesso ci vogliono due anni per ottenere una semplice licenza necessaria a lavorare.

All’assistenzialismo di Europa e Nord America, la Moyo contrappone lo spirito imprenditoriale dei cinesi, che stanno percorrendo in lungo e in largo l’Africa sub-sahariana non certo per distribuire regali, ma solo spinti da concretissimi interessi. Essi investono nella convinzione di fare profitti, ritenendo che in Africa ci siano non soltanto quelle materie prime di cui hanno bisogno, ma anche interlocutori interessanti e business attraenti.

Mentre i politici caritatevoli dell’Occidente hanno fallito, gli investitori cinesi (ma ormai anche indiani, turchi, brasiliani...) stanno aprendo strade nuove. Significativo è il caso del Botswana, che ha compiuto una netta liberalizzazione economica, ridotto la quota di aiuti e attirato investimenti stranieri. Come rileva la studiosa africana, questo Paese «ha perseguito con determinazione numerose opzioni economiche di mercato, che sono state la chiave del suo successo» e ha raggiunto tale risultato «smettendo di dipendere dagli altri».
Nell’Africa contemporanea la Moyo rappresenta un’avanguardia, ma non è sola. Di questa pattuglia fanno parte Thompson Ayodele (della Nigeria), June Arunga (del Kenya), Mamadou Koulibaly (della Costa d’Avorio), Franklin Cudjoe (del Ghana) e altri ancora, tutti persuasi che l’Africa debba tornare agli africani e che questi ultimi debbano essere attori, e non semplici spettatori. Fino ad oggi, tale continente è stato spesso una realtà passiva: di cui si occupano cantanti rock irlandesi come Bono o politici statunitensi come Al Gore. Non ha una voce propria, perché solo di rado ha saputo esprimere un dinamismo creativo tutto suo.



Solo spezzando la catena degli aiuti si può aiutare l’Africa a crescere: come sottolinea la Moyo, è quello che è già successo in larga parte dell’Asia più povera e ci sono davvero buone ragioni per credere che possa ripetersi anche altrove.

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