Che cosa ci fa Cristiano Huscher, «il nuovo Enzo Tortora», qui al Porto antico di Genova, dove si celebra il congresso nazionale dell'Acoi, associazione che raggruppa buona parte dei 25.635 chirurghi ospedalieri italiani, se sono stati proprio i suoi colleghi, «quasi mai i pazienti», a procurargli 60 avvisi di garanzia, «forse 65, ho perso il conto», dei quali ben 42 scaturiti dalle denunce di uno solo di loro, costringendolo a spendere 2 milioni di euro, «tutto ciò che avevo», in avvocati? Eppure dovreste vedere con quanti inchini, abbracci, salamelecchi, pacche sulle spalle e baci di Giuda sulle guance lo accolgono riverenti e festosi. Che cosa ci fa Cristiano Huscher, anzi il professor Cristiano German Sigmund Huscher, a un simposio avente come tema Il chirurgo per l'uomo: la Mente, le Mani, il Cuore, scritto così, con una sospetta profusione di maiuscole, se egli è convinto che nello svolgere una professione di cui sarebbero capaci persino le scimmie l'unica differenza la faccia lo studio, «senza quello, sei un infermiere»?
Fa ciò che gli riesce meglio, il professor Huscher, al congresso dell'Associazione chirurghi ospedalieri: insegna. Negli ultimi 40 dei suoi 64 anni di vita, dopo essere diventato primario ad appena 38 con quattro specializzazioni (chirurgia generale, cardiotoracica, digestiva ed endoscopica), è stata questa l'attività prevalente che ha svolto in cattedra e al tavolo operatorio nelle università di Zurigo, Losanna, Heidelberg e Tel Aviv, alla Harvard University di Boston, alla Johns Hopkins di Baltimora, al Karolinska Institutet di Stoccolma, negli ospedali di Brescia e di Esine, all'Istituto dei tumori di Milano (chiamato a dirigere «per chiara fama» la chirurgia toracica, un privilegio che prima di lui era toccato solo a Mario Donati, un altro ebreo, nel 1946), negli ospedali San Carlo di Milano, San Giovanni di Roma e Veneziale di Isernia e ora all'Università del Molise e all'Azienda ospedaliera Rummo di Benevento, dove dirige l'unità operativa di chirurgia generale e oncologica. È anche un modo per tenersi lontano da aule di giustizia e studi legali, almeno per 48 ore. Ha già subìto sei processi, epperò mai una condanna definitiva, totalizzando un record senza eguali per un medico, fatto non soltanto di archiviazioni e di assoluzioni che in appello hanno cancellato pene severe irrogategli in primo grado, ma anche di sentenze su un unico caso ritornato per ben quattro volte in Cassazione.
I giudici hanno scritto cose orrende sul conto di Huscher, del tipo «diagnosticava cancri inesistenti e demoliva organi, contro il parere di altri chirurghi». Riformulo a modo mio i capi d'imputazione. Primo: è il più bravo di tutti, una colpa inescusabile nell'Italia delle pastette e dei mediocri. A confermarmelo, 10 anni fa, fu un suo collega formatosi alla scuola del leggendario Pietro Valdoni, il professor Licinio Angelini, ordinario alla Sapienza di Roma: «È un personaggio controverso, che con la sua condotta genera anticorpi. Ha un caratteraccio. Parla male dei colleghi. Ma vederlo all'opera è uno spettacolo culturale e tecnico». Secondo: nei casi che gli altri chirurghi giudicano inoperabili, Huscher si prende la responsabilità d'intervenire. Lo ha fatto nel 1997 persino sulla madre Maria, originaria di Levico Terme, che a 91 anni gode ancora di ottima salute alla faccia del tumore al pancreas, uno dei più letali, che nessuno le voleva asportare. E si rammarica di non averlo potuto fare sul padre Federico Maria, ucciso da un cancro al testicolo a soli 53 anni, quando il figlio era medico da appena due. Terzo: si è messo contro politici e sindacati. Quarto: ha un palmares di clienti celebri operati con successo da far invidia alla casta dei bisturi d'oro, comprendente - tocca stare sul vago in ossequio alla privacy - uno dei cinque uomini più ricchi del pianeta (il quale per un'ernia iatale gli staccò un assegno da 200.000 euro, sembrandogli insufficienti i 70.000 richiesti dal luminare); un presidente della Repubblica (finito sotto i ferri in una sala operatoria del Quirinale, dove Huscher restò recluso cinque giorni a seguire il decorso postoperatorio dell'augusto paziente); un presidente della Corte costituzionale; segretari di partito; un magistrato del pool Mani pulite; un presidente della Consob; un celeberrimo tenore; un regista premiato con l'Oscar; personaggi dello star system. Di almeno uno, Carmelo Bene, si può fare il nome, giacché a poche ore dall'asportazione di un tumore (mediante resezione del peritoneo e di parte del colon, dell'intestino e del diaframma) fu descritto da un giornalista «vispo come un pesce, seduto sul letto a deliziare gli amici accorsi al capezzale». Il cronista non mancò tuttavia di raffigurare Huscher come «sosia di Bela Lugosi», vale a dire del conte Dracula - per inciso, non lo è, neppure alla lontana - e di annotare: «Nome di grande e morbosa suggestione per Carmelo, che lo associava alle rovine della casa di Edgar Allan Poe». E transeat se nel racconto del terrore i protagonisti in realtà sono gli Usher, senza «h» e senza «c». Quinto e ultimo capo d'imputazione: è ebreo.
Partiamo da qui. L'origine pesa?
«Eccome. Sono un cane rognoso. Non mollo mai: la vita è un valore troppo grande. In quanto ebreo, non posso comportarmi da vigliacco. Abbiamo resistito ai forni crematori. Possiamo reggere anche alle sentenze di una magistratura che ne uccide più del cancro».
Lapidario.
«Non che la mafia dei chirurghi sia meno pericolosa. A Milano ho dovuto cedere il passo a un collega che ha due mani sinistre attaccate dietro la schiena, così lo definiscono all'estero. Ma almeno è stato sincero. Mi disse: “Cristiano, va' fuori dai coglioni, perché questo posto spetta a me. Non puoi vincere”».
Onesto nella sua disonestà.
«Un chirurgo si sente onesto quando offre al paziente ciò di cui egli ha bisogno. È inutile che i giudici cerchino l'onestà perfetta: in chirurgia non esiste. Ognuno di noi fa ciò di cui è capace. Invece i tribunali trasformano una possibile soluzione in una colpa. Assurdo».
È ebreo osservante?
«No».
Quindi mangia anguilla e aragosta.
«Pesce senza squame e crostacei, mai. Faccio un'eccezione per il prosciutto».
Ma è maiale!
«No, è little cow, piccola mucca».
Dov'è nato?
«A Bergamo, dove mio padre faceva il direttore generale dell'industria tessile Legler. Era originario di Vienna. Mio nonno Sigmund, ebreo ashkenazita ucraino, si era trasferito nella capitale austriaca dalla natia Leopoli. A 17 anni papà fu catturato dai nazisti e deportato ad Auschwitz. Scampò alla Shoah».
Come?
«Fuggì. Arrivò in Svezia a piedi. Pesava 30 chili. Poi attraversò mezza Europa e la Francia occupata dai nazisti. Da Marsiglia raggiunse Haifa e combatté con gli inglesi nella Brigata ebraica».
A che età ha deciso di fare il medico?
«A 18 anni. Ho un fratello, Paolo, che è un genio. Ha creato le tecnologie per Vodafone, Wind e Telecom. Da bambino chiesi a mio padre: come faccio a diventare come lui? Mi rispose: “Studiando molto, visto che la sua intelligenza tu non l'avrai mai”. Mi sarebbe piaciuto fare il direttore d'orchestra o almeno il violinista: il mio mito era Jascha Heifetz. Papà me lo impedì».
In che modo?
«Mettendomi in mano un libro, Medici contro la morte. Parlava di tre persone che hanno fatto la mia stessa fine, Louis Pasteur, Alexander Fleming e Thomas Starzl. Al primo, fondatore della moderna batteriologia, bocciarono le scoperte sui vaccini solo perché era un biologo invece che un medico. Al secondo, padre degli antibiotici, i baroni della medicina contestarono la scoperta della penicillina perché sostenevano che dalle muffe non si potevano ricavare principi attivi farmacologici. Al terzo, pioniere nel 1963 dei trapianti d'organo, appiopparono il titolo di “assassino di Denver”. Nel 1991, quando introdussi da noi la laparoscopia per operare il cancro al fegato, al colon, all'esofago e al pancreas, il presidente della Società italiana di chirurgia mi definì un pazzo pericoloso e un avventuriero».
Nemo propheta in patria.
«Per il medesimo intervento, presentato all'American surgical association, la più antica e importante unione di chirurghi esistente al mondo, ebbi la standing ovation dei 600 colleghi riuniti a San Francisco e mi venne offerta una cattedra seduta stante».
E così è diventato chirurgo grazie a Pasteur, Fleming e Starzl.
«Essendo Cristiano il figlio stupido, mio padre m'indirizzò alla medicina».
Questa è autodenigrazione.
«Dico sul serio. La chirurgia va presa come la intendono i rabbini: un'arte per uomini stupidi che sanno di essere stupidi e quindi si allenano di continuo per non sembrare tali. Come i violinisti. Io in sala operatoria sono capace di fare i nodi con una sola mano, non importa quale, sono ambidestro. Ma ci riesco perché tutte le mattine mi alleno eseguendo 100 nodi».
Quanti pazienti ha operato?
«Quasi 30.000».
C'è qualche organo del corpo umano su cui non metterebbe la mano?
«Il cervello. Ma ce l'ho messa lo stesso. È accaduto in Africa. Volevo salvare il mondo nell'ospedale del mio amico fratel Fiorenzo Priuli, che poi ho fatto laureare ed è diventato il medico personale dei presidenti del Benin e del Togo. Un bambino era in preda a una paralisi. O assistevo alla sua morte o gli aprivo il cranio. Fatto. L'indomani il piccolo sorrideva».
Chi sono stati i suoi maestri?
«Ne ho avuti quattro. Sir Murray Frederick Brennan, per più di 20 anni presidente del dipartimento di chirurgia al Memorial Sloan-Kettering cancer center di New York, dove furono ricoverati Gianni Agnelli, suo nipote Giovannino, Oriana Fallaci e Tiziano Terzani. L'ebreo marocchino François Fékété, all'epoca direttore del servizio di chirurgia digestiva presso l'ospedale Beaujon dell'Università di Parigi, costruito dagli americani dopo la guerra. Charles Miller, direttore del centro trapianti alla Cleveland clinic. Moreno Gonzales, il più grande chirurgo vivente. I trapianti multiorgano sono la sua specialità. È diventata anche la mia. Opera a Madrid. L'ho portato a Benevento, dove ha tenuto una lettura durata quasi 10 ore».
Neanche un italiano?
«Dagli italiani ho imparato che cosa non va fatto in chirurgia. È molto importante anche quello, sa?».
Avrà nel suo pantheon chessò Edoardo Bassini, Mario Donati, Pietro Valdoni, Achille Mario Dogliotti, Paride Stefanini, Edmondo Malan.
«Mi parla di fossili della chirurgia, esperti in cose che io sapevo fare a 32 anni. Non perché sono il migliore: perché mi sono state insegnate nell'età in cui potevo apprenderle. È inutile cercare di imparare quando hai 50 anni, e la testa dura, e le mani che tremano».
Ne salverà almeno uno, vivaddio, dei suoi colleghi defunti.
«Li salvo in blocco. Donati era bravissimo. Valdoni era bravissimo. Erano tutti bravissimi. Ma gelosi del loro sapere. La riprova è che in Italia scarseggiano le eccellenze in chirurgia. Negli Usa se non insegni ti cacciano. Da noi funzionano solo le baronie. Il primario è peggio di un maragià. Decide quante volte i suoi medici hanno facoltà di respirare, ciò che devono o non devono fare, quando lo possono fare, se sono tenuti a lavargli l'auto oppure no. All'estero un chirurgo a 28 anni sa fare tutto e se non lo sa fare lo rispediscono a casa».
Non solo un chirurgo.
«Si chiama training. Fu ideato da William Stewart Halsted, morto nel 1922, l'artefice della mastectomia radicale, inventore di numerosi ferri chirurgici e dei guanti di lattice per la sala operatoria. Ho avuto l'onore di occupare il suo posto nella mensa del Johns Hopkins hospital. Invitai al San Giovanni di Roma il suo quinto successore, John Cameron. Quando parlò di Halsted, gli si riempirono gli occhi di lacrime. Questo è il senso di appartenenza a una scuola chirurgica. Al Johns Hopkins notai che tutti gli allievi camminavano sulla sinistra dei corridoi, lasciando sgombra la destra. Chiesi: perché fanno così? La risposta fu: “Perché Cameron cammina a sinistra”. Ecco la nobiltà del lavoro di chirurgo. Passo per incazzoso perché non tollero che uomini gratificati dalla fama, dal denaro e dalla posizione sociale siano tanto gretti nel dare».
Comincio a comprendere perché l'abbiano licenziata due volte.
«Quattro: all'ospedale di Isernia lo fecero tre volte per riuscire a defenestrarmi. Comunque, avendo vinto in appello il primo ricorso, attendo dal 2008 che il San Giovanni di Roma mi restituisca il primariato e il ruolo di capo dipartimento, oltre a 1,5 milioni di euro».
Ha detto dal 2008?
«Esatto. L'ultima proposta è stata la seguente: “Lei ci firma le dimissioni e le diamo la metà, 750.000 euro. Altrimenti la sospendiamo dal servizio prim'ancora di riassumerla”. Una concussione bell'e buona».
Com'è cominciata questa guerra?
«Vinco un concorso pubblico e divento direttore della terza chirurgia del San Giovanni. Dopo sei mesi, passo da 500 interventi a 1.800, in proiezione annua. Perciò mi affidano una seconda divisione di chirurgia. Gli interventi salgono a 2.500. Restava molto poco per le cliniche private romane e i chirurghi mercenari».
Ah, ecco, tutto si spiega.
«Al San Giovanni nominano direttore generale Francesco Bevere, che ora ha avuto dal ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, lo stesso incarico presso l'Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali. Costui viene a sapere che ho presentato i documenti per diventare primario al San Camillo, sempre a Roma, su richiesta del direttore generale e dei chirurghi di quell'ospedale, che a gran voce mi reclamavano. Bevere m'ingiunge di ritirare la candidatura».
Per quale motivo?
«Non faceva il gioco di Francesco Storace. Risposi: non me ne frega niente, bocciatemi, se ne siete capaci. Hanno fatto di peggio: mi hanno licenziato, sostenendo che era venuto meno il rapporto fiduciario con il direttore generale».
E quale sarebbe stato «il gioco» del governatore della Regione Lazio?
«Aveva sette primari da incasellare, uno in fila all'altro, per motivi elettorali».
Lei come lo sa?
«Lo so perché l'assessore regionale alla Sanità dell'epoca, Marco Verzaschi, che in seguito sarebbe stato arrestato e condannato a 4 anni per aver intascato una mazzetta di 200.000 euro su un appalto al San Giovanni, mi convocò all'ambasciata di Israele presso la Santa Sede, pensi che violenza psicologica. E mi comunicò chiaro e tondo che dovevo ritirarmi dalla corsa al San Camillo, facendo i nomi di chi non mi voleva, a cominciare da Eugenio Santoro, presidente della Società italiana di chirurgia. Ho due testimoni. Uno è il vescovo Sergio Pintor, consultore del Pontificio Consiglio della pastorale per gli operatori sanitari».
Perché è finito così tante volte davanti ai giudici?
«Appena arrivato a Roma, i colleghi mi dissero: “Ti riempiremo di denunce”. Uno di loro era salito fino a Esine per mettermi in guardia: “Ti rovineremo”. Lo presi per un megalomane. Invece parlava seriamente. A trascinarmi in tribunale sono stati quasi sempre i medici».
Al San Giovanni ci fu uno sciopero della fame in corsia quando lei fu cacciato.
«Si vede che trattavo bene i pazienti».
Questo è sicuro: gli comprò persino il condizionatore.
«Per la verità ne comprai 12, uno per ogni stanza. Era l'estate del 2003. Nelle camere un caldo bestiale, 42 gradi. In amministrazione un fresco polare. Proposi ai funzionari: stacchiamo tre dei vostri climatizzatori e portiamoli ai degenti più gravi. Seee! Perciò andai in negozio con la carta di credito personale. Non fu l'unica spesa. Pagai di tasca mia anche un microscopio, le fonti di luce da applicare sulla fronte durante gli interventi, la sala meeting, l'arredamento del mio studio e quello degli studi dei miei aiuti, i quadri per abbellire le pareti, gli abbonamenti alle riviste scientifiche internazionali».
Però passava per un cerbero insopportabile.
«Solo perché di notte m'infilavo nei letti vuoti delle camerate e aspettavo fino all'alba per vedere se passavano il medico e l'infermiere di guardia».
Passavano?
«Mai. Arrivavo in ospedale a sorpresa, alle 2 di notte, alle 5, alle 7. Ho imparato a farlo da Brennan. Devi controllare di persona, perché i malati hanno paura a rivelare quello che non va in corsia. Non mi rassegno all'idea che il primariato sia solo una poltrona. Io ho il dovere di organizzare il miglior servizio. Voglio essere il più lontano possibile dai politici, che invece non fanno un cazzo per aiutare i cittadini».
L'hanno accusata d'aver urlato: «Questo ospedale è un merdaio!».
«Era quello di Isernia, non il San Giovanni. Lo confermo. Vada a vederlo e poi mi dirà. Non vi troverà un primario che abbia i titoli per fare quello che sta facendo. Se lo individua, le conferisco il premio Nobel per la medicina».
Dovrebbe mandarci un magistrato.
«Nel 2007, appena arrivato in cattedra, la Procura di Campobasso m'indagò per abuso d'ufficio e falso ideologico su denuncia di un medico di quella città. Mandarono la Digos e i Nas a perquisirmi la casa, lo studio e persino l'auto. Dopodiché fui assolto. E dovrei fidarmi dei magistrati?».
Quante ore trascorre in ospedale?
«Dalle 7.30 alle 21, quando va bene. Eseguo quotidianamente dai due ai quattro interventi. Al San Giovanni operavo intramoenia i privati dalle 22 in poi. Però non mi prenda per un eroe. Guadagnava tanto l'ospedale e guadagnavo tanto io. Il primo stipendio fu di 96 milioni di lire. Andai in contabilità perché credevo che avessero sbagliato a mettere una virgola nel cedolino».
Lei interviene quando i suoi colleghi dicono che non c'è più nulla da fare. Che cos'è? Sprezzo del pericolo?
«Mitologia. Seguo i protocolli internazionali, che spesso vengono disattesi da chi non vuole grane e preferisce la cosiddetta medicina difensiva. Al malato di cancro senza speranze dico: torni domani e discutiamo il suo caso con l'oncologo, il radioterapista e l'immunologo. Se tutti danno l'ok, tentiamo».
Tentare nuoce, in certi casi.
«No, se prima il paziente viene sottoposto a una terapia neoadiuvante, come la Vumat, per esempio, la radioterapia a volume variabile, che pochi praticano».
Carmelo Bene tre mesi dopo l'intervento estremo era cadavere.
«Fu dimesso in ottimo stato. Non posso rispondere dei comportamenti dissennati tenuti dal regista durante la convalescenza. Se vuole, le presento persone date per spacciate e ancora vive dopo operazioni al pancreas con rischio di complicanze pari al 47 per cento e tasso di mortalità fino al 10 per cento».
Ma perché i suoi colleghi si rifiutano di eseguirle?
«Ognuno ha la propria coscienza. C'è anche da dire che loro sono cattolici, io ebreo. Teste diverse. L'israelita s'identifica in ciò che conosce, non in ciò che è. Io non mi sento io perché sono Huscher, perché sono ricco o perché sono pelato, ma per quello che so».
Il malato oncologico senza speranza arrivato a lei da più lontano chi è?
«Una ricercatrice svedese del Karolinska Institutet. Tumore dell'ovaio al quarto stadio, con metastasi solitaria di 30 centimetri al fegato sviluppatasi dopo due interventi. Aveva 35 anni, alternative non ce n'erano: operarla di nuovo o vederla morire. Le ho praticato un'epatectomia destra. È ancora viva, dal 2004. Ciononostante, per averle regalato 11 anni di vita sono stato processato due volte con l'accusa di accanimento terapeutico. È venuta a difendermi in tribunale: “Guardatemi. Sto bene e lavoro grazie a Huscher”. Un comandante del Sisde l'ho operato 11 volte. È vivo. Avrei dovuto lasciarlo crepare?».
Può affermare in tutta coscienza di non aver mai provocato per imperizia la morte di un degente?
«Intervengo su malati di cancro che nel 95 per cento dei casi morirebbero se non li operassi. Posso anche aver sbagliato nelle scelte. È costellata di dubbi la vita di un chirurgo: difficile stabilire che cosa va fatto. Ma per imperizia credo proprio di non aver mai ucciso nessuno. Forse da giovane alle prime armi, chissà. Per diventare esperto un chirurgo deve aprire almeno 10 pazienti, 50 nella chirurgia maggiore. Con un maestro al suo fianco che gli guidi le mani affinché non li ammazzi».
Perché fa la guerra ai sindacati?
«Sono loro che la fanno a me. Pretendono il rispetto degli orari, 6 ore e 40 minuti, 6 giorni la settimana. Ma un trapianto mica si fa in 400 minuti. Negli Stati Uniti un chirurgo resta in ospedale per 24 ore filate e il giorno dopo se ne sta a casa. In Italia siamo alla follia, con anestesisti e infermieri che si danno il cambio mentre è in corso l'intervento».
Soluzioni?
«Non ne vedo. Questo è un Paese di cattocomunisti. Da ragazzo andavo con mio padre alla Fiera di Lipsia e quello che vedevo allora è ciò che vedo adesso in Italia. Là si chiamava Ddr, qui si chiama renzismo».
Ma come? Il premier Matteo Renzi si fa i gargarismi tre volte al giorno con riforme, meritocrazia, buona scuola, efficienza.
«Sono medico da 41 anni e non ho mai assistito, dico mai, a un concorso pubblico pulito. I nomi sono già tutti decisi prima. Se vuole le dico a chi andrà la cattedra di chirurgia generale a Niguarda. Lei però s'impegna a scriverlo dopo che il posto sarà stato assegnato». (Mi fa nome e cognome del vincitore).
Perché è rimasto a lavorare in Italia? All'estero avrebbe avuto solo l'imbarazzo della scelta.
«Ho vinto tre posti negli Stati Uniti, incluso quello di chairman della chirurgia al Mount Sinai medical center, in cui opera il mio amico Barry Salky. Ho mandato i certificati dell'Ordine dei medici: mi è stato risposto che non potevo essere assunto a causa delle inchieste penali. In America è inconcepibile che, se un malato muore durante un intervento, i parenti denuncino il chirurgo per omicidio. È un'aberrazione che esiste solo in Italia e in Polonia».
Come ha fatto a mantenere la lucidità nel corso della sua odissea giudiziaria? Dove ha trovato la forza per continuare a operare?
«Ho pensato a mio padre. E a quello che insegnano i rabbini: “Dio non manda mai una prova che tu non sia in grado di superare”. Nel 1993 mi venne un melanoma. Il compianto Natale Cascinelli, autorità indiscussa del ramo, sentenziò: “Mangia, bevi, scopa e viaggia, perché fra otto mesi sarai nella bara”. Invece eccomi qua».
Miracolo?
«Cure appropriate. Al Jefferson university hospital di Philadelphia».
È mai finito sotto i ferri?
«Tre volte. Due negli Usa per il melanoma, l'ultima alla Fondazione Poliambulanza di Brescia, un ospedale di assoluta eccellenza».
Sia sincero: chi avrebbe voluto trovare in sala operatoria?
«Per bravura? Franco Corcione e Gianluigi Melotti, chirurghi al Monaldi di Napoli e al Sant'Agostino Estense di Modena. E soprattutto Raffaele Pugliese, primario al Niguarda. Peccato che vada in pensione. Lui è un gigante».
Un gigante perché?
«L'ho visto piangere mentre operava un nostro amico».
(761. Continua)
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