Giorgio Caprotti
Là dove fu rasa al suolo la casa in cui abitava e aveva la bottega di barbiere Gian Giacomo Mora, venne eretta a monito una colonna che infangava la sua memoria. Accusato da una falsa delazione di essere un «untore», un diffusore di una delle peggiori sciagure che colpirono Milano quale fu la peste del 1630 - nota come «manzoniana» -, venne ingiustamente torturato e ucciso nellafa nauseante dellagosto di quello stesso anno assieme al suo accusatore. Poi, con gli occhi ormai appannati dalla paura e i corpi atrocemente martoriati per sei giorni, finirono per accusarsi a vicenda, col solo scopo di prendersi brevi intervalli tra una sevizie e laltra.
In quei tempi di caccia alle streghe vigeva la macabra consuetudine delle «colonne infami». Quella milanese, quindi, non fu la prima: piuttosto si può dire che, forse, fu lultima. Eretta là, quasi di fronte alle Colonne di S. Lorenzo allangolo fra la contrada Vetra dei Cittadini (oggi divenuta via Gian Giacomo Mora) e lodierno corso di Porta Ticinese, ancora sul tracciato dellantica via romana «ad Ticinum», diretta verso il Ticino nel Pavese. Basterà citarne un paio di esempi anteriori: come quella del 1608, anche lei di manzoniana memoria, perché sorgeva nei pressi del Monastero di S. Maria in Monza. «Per infame memoria - riporta infatti lo storico Guido Lopez - di Giovanni Paolo Osio, il carnale tentatore di Suor Virginia de Leyva», la monaca di Monza. E laltra di Genova, del 1628, per Giulio Cesare Vacherio decapitato traditore della repubblica.
Simboli così esecrati che portarono alla loro silenziosa demolizione, compresa la «nostra». Sennonché il Manzoni, molto accortamente, imperniò la sua opera immortale sulla pagina buia di quella lontana peste del 1629-32, che ebbe il suo apice nel 1630.
E quella colonna diventa, oggi, opera darte e memoria. Il motivo ispiratore della scultura in bronzo commemorativa è stata lidea, ben azzeccata dallo scultore milanese Ruggero Menegon, di restituire una «Colonna di luce» là dove stava una ingiusta colonna dinfamia. Lidea che un fatto storico portato a una conoscenza tanto diffusa anche attraverso gli accenni ripetuti nei Promessi Sposi del Manzoni, certo fra le opere più largamente tradotte e diffuse nel mondo, comporta che non lo si possa ormai più ignorare. Ma nello stesso tempo bisognava anche che gli andasse riconosciuto il riscatto di una verità difficilmente realizzabile, ottenuta però genialmente con larte contemporanea, con lidea rivolta a restituire la verità ad una storia, sì antica ma sempre ancora presente e proiettata nel futuro: un raggio di luce nel liscio e lucido cavo di una sezione longitudinale di colonna dalla superficie tormentata.
Una luce riflessa, dallantico suolo cittadino nel portico dangolo di uno spazio volutamente conservato, che sale e si espande in quella sede storica come la luce di una verità nascosta e con accanto il riporto di una preziosa quanto significativa scritta: «Qui un tempo sorgeva la casa di Gian Giacomo Mora, ingiustamente condannato a morte nel 1630». «È un sollievo il pensare - scriveva il Manzoni - che se non seppero quello che facevano fu per non volerlo sapere, fu per quell'ignoranza che l'uomo assume e perde a suo piacere e non è una scusa ma una colpa».
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