Mi intrufolo tra altri giornalisti incappottati nel Centro Sportivo della Juventus a Vinovo per l’attesa conferenza stampa di Gianluigi Buffon. Gigi annuncerà il rientro tra i pali dopo mesi di assenza per uno stiramento. Sbrigata la pratica, ritarderà di mezzora il pranzo, per un’intervista col sottoscritto.
La campagna torinese è sepolta dalla neve e i corvi volano bassi in cerca di cibo. Impresa disperata. Comunque, auguri ai volatili e torniamo ai nostri problemi. Se fuori fa meno quattro, nella saletta c’è poco di più. Diciamo, una virile frescura da centro sportivo. Nell’attesa, si parla per alzare la temperatura. Il fiato si trasforma in fumo e ci si riscalda con quello.
Dopo il quarto d’ora accademico, appare il portiere della Nazionale. Verrebbe da dire che entra come una ventata, ma date le circostanze evito il termine. Comunque, è in gran forma e nemmeno lassù dove arriva lui - sui due metri - sembra patire il freddo. Indossa jeans e, sopra un dolcevita, un giaccone rosso col distintivo bianconero. «Salve ragazzi», dice e siede in tribuna.
Risponde serio alle domande, anche loro sobrie e concrete. Tutto si svolge con essenzialità piemontese. Gigi non dà confidenza, né la prende. Anziché un giovanottone di 30 anni, sembra più maturo di un cinquantenne maturo. Un ruolo importante gioca anche il suo aspetto. Barba di due giorni, basette lunghe fino ai lobi, sopracciglia ad arco che danno gravità al viso.
Assicura che resterà alla Juventus. Niente Manchester. Sulla durata della sua carriera non fa previsioni. «Cinque-dieci anni, finché non sfiguro con gli altri», dice. Finora, però, non vede rivali. Quando lo elogiano perché, a differenza di altri, parla schietto, risponde che, senza volersi incensare, pensa di poterselo permettere. Osserva: «Ho un vocabolario più forbito che mi consente di articolare meglio senza incappare in fraintendimenti con la stampa». La conferenza dura il giusto e viene il mio turno. Mauro Girotto dell’ufficio stampa della Juventus fa le presentazioni e ci porta in una saletta appartata.
«Posso cominciare con una domanda di filosofia calcistica?», chiedo e ci sediamo a fianco.
«Vada, vada», dice Buffon. Mentre la platea lo intimidiva, a tu per tu è più sbrigativo. O, forse, ne ha abbastanza di giornalisti e vuole tornare da Thomas, il figlio di un anno, e dalla bella Alena Seredova.
«Il portiere è l’unico che usi le mani. In che altro si distingue dai compagni?», dico.
«Può sembrare più estroverso e pazzarello. È solo più sensibile e solitario. Fa un po’ di scena per farsi compagnia mentre gli altri giocano. Un modo per distinguersi e attirare l’attenzione quando gli occhi di tutti sono sul resto della squadra».
«Tutti i Buffon sono sportivi di mani e braccia. Lanciatori di peso i suoi genitori, pallavoliste le sue sorelle. Un destino segnato, il suo».
«Non ci avevo mai pensato. Sappiamo fare meglio le cose con le mani. Anche un Buffon, mio lontano parente, era portiere negli anni ’60 e un mio zio campione di basket nel Cantù», dice divertito. L’accento di Gigi, nonostante sia toscano di Carrara, è del Nord. Nessuna meraviglia. A 17 anni debuttò in seria A nel Parma. Poi alla Juventus e da allora vive a Torino.
«Da tre mesi, non gioca. Frustrato o tanto guadagna lo stesso?», insinuo.
«Guadagno da quando ho diciassette anni. È un dato acquisito. Non è più uno stimolo, né una particolare gioia. Fa parte di te. Rimane la passione per quello che fai».
«Gioca per la gloria sportiva?».
«Ho voglia di esserci e dare il mio contributo alla causa. Quindi soffro un po’ per non essere in campo».
«Quanto incassa al mese?».
«Tanto, certo. Non è che mi vergogni di dire quanto. Anzi, la capacità di guadagnare, è motivo di orgoglio. Ma è un momento in cui bisogna avere rispetto per la gente. Quindi, meglio non dare risalto sui giornali», dice e prende due piccioni con una fava: fa la figura del saggio e tiene per sé il conquibus.
«Quando due anni fu coinvolto nelle scommesse, e poi prosciolto, molti si chiesero perché scommettesse guadagnando già tanto».
«Non lo facevo per guadagnare, ma per divertimento. Per dimostrare agli amici che capivo così tanto di calcio da prevedere i risultati. Mi piaceva dare suggerimenti, aiutando anche altri digiuni di calcio a guadagnare qualcosa», dice come sempre pronto, fulmineo e innocente.
«Nel gioco d’azzardo ha perduto più di due milioni di euro».
«Mi piace l’azzardo in genere», dice e si tira le dita facendole scricchiolare. Imbarazzo?
«Non la rimproverano in famiglia?».
«Non è che ne sia orgoglioso. Non mi fa onore. Ma sono un essere umano e fa parte del mio privato. Visto che non rubo i soldi che gioco, faccio autocritica, ma non tollero le prediche di estranei. Tanto più che sono altruista e aiuto spesso il prossimo».
«Avrebbe restituito i 160 mila euro trovati per caso come ha fatto giorni fa la signora sarda?».
«Tanto di cappello. Mia madre nell’83 trovò una banconota da cinquantamila lire e la restituì. Non nuotavamo nell’oro e i carabinieri risero. Io, forse non lo farei. Quanto alla signora sarda...».
«Sì?»
«Forse si è impaurita per la cifra. Se fossero stati cinquemila euro se li sarebbe tenuti», malizia.
«Nel fondo, però, è un sentimentale. È rimasto con la Juventus anche in B, diversamente da Cannavaro».
«Sono una persona corretta che dà priorità al sentimento. Preferisco prenderla in tasca io che metterla in tasca agli altri. Ma se mi fanno un torto, non do una seconda possibilità. Penso anche che nella mia posizione si debbano dare esempi belli e importanti».
«È anche oculato. Ha investito i soldi in uno stabilimento balneare e cose così».
«Quello è stato un bell’investimento. Inoltre, grazie ai miei genitori che amministravano i miei guadagni da minore, ho un notevole patrimonio immobiliare», dice e noto che ha su entrambi i polsi vari braccialetti, in cuoio, argento, etnici e locali.
Così, anche lei ha scritto un libro (Numero 1, col giornalista Roberto Perrone).
«No. L’ho dettato».
Parla della sua depressione, tra 2003 e 2004. Che sia accaduto a un ragazzo ricco e famoso ha sorpreso.
«La gente non mi considera normale. Ma lo sono. Ho voluto anche fare gli errori delle persone normali. Posso essere vittima di crisi come tutti. Agli occhi della gente ti dà un po’ di umanità in più».
È successo di peggio al suo collega Gianluca Pessotto.
«Abbiamo caratteri e modi di affrontare le cose diversi. Ma siamo entrambi molto sensibili. Succede a chi ragiona tanto. A chi ha poco cervello non capita».
La nascita di Thomas e l’affetto di Alena, le eviteranno ricadute?
«Sono più maturo, ho più equilibrio e meno grilli per la testa. Mi auguro di non avere ricadute. Ma se succedesse, non parto dall’ignoto. So di che si tratta e non ho più paura».
A quando il matrimonio?
«Ogni giorno che passa si avvicina di sicuro».
Quindi, si sposa?
«Certo».
Cassano ha avuto 700 donne.
«Non mi sono mai fatto mancare niente. Ma se da scapolo non ho messo in piazza la mia vita, figurati se lo faccio ora».
Nel libro ha confessato di essersi comprato il diploma.
«Mi mancava un anno per finire ragioneria. E così...».
Perché l’ha rivelato?
«Se parli di te devi farlo con onestà. Il libro non è un’autocelebrazione, ma un’autobiografia».
Si è mai drogato?
«A parte gli spinelli in collegio, mai preso stupefacenti. Vengo da una famiglia sportiva e certi valori sono importanti. Un problema di autostima».
È considerato di destra. Lo è?
«Tra destra e sinistra, preferisco la destra. È innegabile (si sfila di colpo il giaccone rosso e mostra ridendo il dolcevita nero, ndr)».
Il politico che le piace di più?
«Gianfranco Fini, da sempre. Ma anche Bertinotti, che certo di destra non è. Se uno ha pensieri buoni e corretti, mi sta bene».
Il più antipatico?
«Chi non mi ispira, nemmeno lo guardo».
La sua idea politica di fondo?
«Vorrei che fosse ripristinato un po’ di ordine».
Bobo Vieri è stato intercettato e pedinato.
«Eticamente scorretto, ma se non hai nulla da nascondere, è indifferente. Lo dico anche a mia moglie: “Se hai dei dubbi, tesoro, mandami dietro un detective. Almeno te li levi”».
L’hanno accusata di antisemitismo perché da ragazzo nel Parma indossò la maglia numero 88, due volte l’ottava lettera dell’alfabeto, HH. Simbolo nazista per Heil Hitler. Chiese scusa e la cambiò con un 77.
«Mai stato antisemita. Ignoravo il simbolo. Fu il Parma a impormi il cambio. Obbedii per debolezza. Oggi, a 30 anni, terrei la maglietta».
La guerra di Israele a Gaza è prepotenza o legittima difesa?
«La guerra è la fine del dialogo. La morte delle idee. Ci sono Nazioni che faticano a vivere in pace. Penso che in Palestina la guerra ci sarà sempre».
Tra i suoi colleghi chi ammira di più?
«Gattuso. È genuino e altruista. Splendido».
Che si aspetta dal 2009?
«Nulla. Il futuro si crea. Devo impegnarmi per fare qualcosa di importante».
Si riferisce al calcio?
«Sì. In famiglia le cose vanno molto bene».
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