Da tempo immemorabile è in atto una battaglia tra i politici che pretendono il riconoscimento legale delle cosiddette coppie di fatto e quelli che vi si oppongono. Cosa si intende per coppie di fatto? Persone, anche dello stesso sesso ( non necessariamente), che mettono su famiglia e convivono more uxorio , ma che sarebbero svantaggiate rispetto a quelle regolarmente coniugate. In pratica non godrebbero di taluni diritti: assegnazione di case popolari, successione di beni, possibilità di assistere in ospedale il (la) convivente eccetera.
Alcuni anni orsono la sinistra propose una legge, i Pacs (Patti civili di solidarietà), per colmare la «grave lacuna». E scoppiò il finimondo. Discussioni televisive, interventi appassionati sui giornali, duelli fra chi era pro e chi contro l’iniziativa. L’Italia già allora era piena di guai. I soliti: l’occupazione, il debito pubblico crescente, il mancato rilancio dell’economia, l’emergenza giustizia, le intercettazioni, per citarne alcuni.
Ma per un paio di mesi tutte le grane furono accantonate per discettare di Pacs. Pareva che al vertice delle preoccupazioni degli italiani ci fossero le unioni di fatto. Pareva che dalla loro ufficializzazione dipendessero i destini della Patria. Al punto che i progressisti elaborarono un secondo progetto per superare la paralisi dei Pacs, denominato stavolta Dico ( Diritti e doveri delle persone stabilmente conviventi). La questione accese gli animi. Seguirono liti infinite. I laici o laicisti coprirono di insulti i cattolici, accusati di ogni infamia: retrogradi, fondamentalisti, bigotti, baciapile. E i cattolici ricambiarono le cortesie, rispondendo colpo su colpo. Risultato: zero a zero.
I Dico, esattamente come i Pacs, furono cassati. E tornò il sereno. Ciascuna fazione si tenne i propri pregiudizi, ma smise di combattere per dare uno status giuridico alle famiglie gay, lesbiche e trans. Nel frattempo cosa è successo? Nulla. Sennonché, nelle ultime settimane, il tema è tornato a bomba.
Il sindaco arancione (rosso ormai è out) Giuliano Pisapia, votato dalla maggioranza dei milanesi, che consideravano Letizia Moratti un braccio della dittatura berlusconiana, ha preso una decisione storica: istituire nel capoluogo lombardo un «registro delle coppie di fatto ».
Però, che idea! La capitale morale dimostrerà che la civiltà non è morta, consentendo a chiunque coabiti con un tizio o una tizia di iscriversi a una sorta di anagrafe parallela. Applausi scroscianti hanno accolto la coraggiosa delibera del nuovo inquilino di Palazzo Marino. Ma siamo sicuri che siano battimani meritati? Non tanto. Infatti, dall’Emilia giunge nel frattempo una notizia che invita a riflettere. La presidente della commissione affari generali e istituzionali del Comune di Bologna, Valentina Castaldini (Pdl), ha scoperto che nella sua città esiste dal 1999 un «registro delle coppie di fatto» (aperto a conviventi etero od omosessuali, indifferentemente) sul quale però c’è una sorpresa. Quale? In oltre 12 anni, mai alcun bolognese ha voluto vergare il proprio nome e cognome. Gay e lesbiche si sono ben guardati dal chiedere agli uffici municipali di rilasciare loro un certificato di avvenuta costituzione di un nucleo familiare. Segno evidente che se ne infischiano di «sposarsi».
Lo stesso accade a Gubbio. Anche qui c’era uno di questi registri strambi a disposizione di gay (e affini) desiderosi di coronare burocraticamente il loro sogno d’amore.Bene,è rimasto in bianco. Neppure una sfigatissima coppia ha scelto di darsi i crismi dell’ufficialità. Ciò significa che le guerre stellari tra politici cattolici e politici laicisti, per quanto siano andate avanti lustri e lustri, sono state completamente inutili, per non dire stupide, insensate. Significa che i partiti del nostro Paese hanno drammatizzato un falso problema.
Significa che deputati e senatori ignorano la realtà e si accapigliano senza motivo, non sanno dove vivono né chi rappresentano. Poi si stupiscono perché monta l’antipolitica.E si lagnano perché il popolo li disprezza e preferisce i tecnici a loro.
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