di Luca Pavanel
C reativo e poliedrico: Stefano Bollani, 45 anni, milanese, è così. Non solo nella musica, pure nella vita. Visto da vicino tutto è ancora più evidente. Un fiume in piena, si racconta come «consumatore vorace», di note e film. Un piatto di riso condito con olio e limone lo vorrebbe vedere a tavola tutte le sere. De gustibus, sorride. Forte inclinazione a viaggiare, a restare affascinato dall'ignoto. Parliamo di alieni. «C'è un universo enorme - attacca - certamente non siamo soli. Sostenere il contrario oltre che non essere divertente, non è razionale». Altri mondi a parte, mettiamo i piedi sulla terra, in un locale a Milano. Sorpresa: «Qui ci sono nato ma è la città che conosco meno in assoluto, non ci ho mai vissuto. Da piccolo abitavo in via Lanfranco Della Pila. Nella vita poi sono stato in tanti posti, dunque la definizione nomade, anche nomade musicale mi sta bene. Del resto mio padre cambiava lavoro, era dirigente in una ditta di inchiostri e capitava di cambiare casa».
A furia di traslochi è diventato una persona irrequieta: star del jazz, scrittore, conduttore tv.
«Sì, faccio molte cose, ma sono facce della stessa medaglia. Sarebbe bizzarro se fossi insegnante di matematica. Tutto questo, di cui parliamo, mi sembra legato da un filo conduttore. Ho voglia di dire la mia e quindi utilizzo tutti mezzi che posso. Ho letto una definizione di artista dello scrittore Tom Robbins che è la più bella: L'artista è colui che ha voglia di vedere una cosa che non c'è quindi la fa lui».
Dietro a questo suo lato artistico c'è un'«eredità» familiare?
«La musica in casa non c'era, nessuno suonava niente. Mio padre però era molto appassionato di canzoni degli anni Cinquanta e Sessanta, personaggi come Little Richard e Fatz Domino, Frank Sinastra, Nat King Cole, ovviamente in cima i Beatles. In generale lui era quello che faceva divertire gli amici alle feste; ecco, a proposito direi che la capacità di fare intrattenimento sicuramente l'ho ereditata da papà. In famiglia per la musica sono stato il primo, poi ho una sorella, più piccola di me, Manuela, che canta e a cui piace parecchio il musical».
Come è entrata la musica nella sua vita?
«Posto che da ragazzino mi piaceva giocare molto a calcio e sono stato milanista per anni, la prima cosa che a proposito ho detto in famiglia è che volevo fare il cantante, avevo quattro, cinque anni; volevo essere Celentano. I miei genitori mi hanno domandato: Vuoi prima studiare uno strumento? In quel periodo abitavamo ad Alba, in Piemonte. Le prime lezioni le ho prese nel retro di un negozio di articoli musicali che esiste ancora. Silvana Bartocci è l'insegnante che per anni mi ha preparato in vista dell'esame d'ingresso in Conservatorio. Sono stato molto coccolato, in famiglia. Quando arrivavo a casa e al piano facevo una canzoncina intorno c'era l'aria tipo ohhh, che miracolo!».
Perché il jazz e non la classica?
«Da sempre mi diverto più a improvvisare. Già all'inizio, quando ero ragazzino, semplicisticamente mi sembrava di creare qualcosa. Nell'altro modo, invece, era come ripetere le parole scritte da un altro. Questo è quello che pensavo allora. In realtà oggi so bene che quando il pianista Maurizio Pollini propone Chopin c'è una creatività enorme, nella sua interpretazione. Poi ora non mi pongo più il problema del sto facendo jazz o sto facendo classica, fare scelte di campo non mi interessa, adesso suono punto e basta. Ho scritto un pezzo: che cosa è musica classica, jazz o contemporanea? Sto scrivendo punto e basta. Ormai cadono certe barriere, che sono invenzioni culturali».
Incontri che cambiano la vita
«Un personaggio che mi ha cambiato la vita da tutti i punti di vista, sia umano sia nella carriera, è stato il trombettista e compositore Enrico Rava. Riassume un po' tutto. Con lui è stata una grande occasione per farmi ascoltare, per la carriera è stato fondamentale perché mi ha aperto molte porte e mi ha fatto conoscere molte persone, sia musicisti sia discografici. Da un punto di vista umano è stato un sogno che si è realizzato».
Rava, primo incontro col guru?
«Andavo a vederlo da adolescente. Quando ho suonato al suo fianco avevo 23 anni, per me era come suonare con Louis Armstrong. Da subito mi ha ascoltato senza far pesare i miei sbagli. E lì ho capito una cosa della vita: non contare gli errori agli altri perché poi li contano a te. Come lui guidava il gruppo era un esempio di società ideale».
Fin qui è stata una vita a mille all'ora, faticoso no?
«Ho dormito sempre poco, mi sono divertito e per questo non mi è sembrata una vita così veloce. Si ha la percezione di una velocità che disturba se tutto è imposto da qualcuno, ma se le cose sono scelte, si sente di andare alla propria velocità».
Nella folla degli avvenimenti sono spuntate anche delle onorificenze di Stato.
«Per fortuna non ho dovuto fare discorsi, comunque non mi sarei tirato indietro, sono un chiacchierone. Niente convocazioni, nessuna cerimonia; mi hanno telefonato e comunicato a voce, poi una lettera a casa. Avrebbe potuto essere uno scherzo. Qualcuno diceva: I premi a volte non hanno senso ma visto che ci sono conviene vincerli. Se qualcuno mi ha chiamato commendatore? Come no, gli amici per scherzare».
È pure membro del collegio della Patafisica, vuole spiegare alla «bollanese» di che cosa si tratta?
«L'idea è quella cosa che non si capisce che cosa è. Sono membro ma non conosco nessun altro membro. Hanno fatto una cerimonia anni fa, vicino a Napoli. L'origine è legata anche all'artista milanese Enrico Baj».
Fra i suoi fan ci sono persone comuni e molti personaggi celebri.
«Tante e molto diverse tra loro. Penso, come dicevo prima, a Tom Robbins, ci scriviamo; da poco ho finito di leggere il suo romanzo Profumo di Jitterbug; le classifiche non contano nulla ma per quel che mi riguarda lo considero un autore molto ispirato. Poi penso allo scienziato Corrado Malanga che adesso si sta occupando di capire come è nato l'universo. C'è il pittore Luigi Serafini, che mi ha dato l'ok per usare i suoi disegni per il disco; e ancora Leo Ortolani, che è l'autore del celebre fumetto Rat-man».
Giocando a «scala quaranta», chi è la donna di cuori?
«Una e una soltanto e la amo molto: Valentina, naturalmente (Cenni, ndr). Ci siamo portati in molte direzioni. La nostra è una relazione molto creativa, ci aiutiamo a vicenda su qualsiasi cosa in cui l'altro abbia delle piccole carenze, per esempio lei ha molto gusto. È attrice ma il teatro è sempre stato un amore anche mio e per la prima volta ho recitato con Valentina, fare un ruolo è stato interessante. Tanta gente ti dice meglio non lavorare con la persona con cui stai, però il lato positivo della vicenda è che se tu sei veramente innamorato di questa persona sai che tutti i consigli che lei ti dà sono per il tuo bene e non per il suo».
Un'altra mano, re di denari: se non avesse fatto il pianista quale sarebbe stato, il caso di dirlo, il piano B?
«Lo scrittore, il giornalista, l'attore oppure il cantante, chissà. Tutto questo non è mai stato un piano B che in realtà non ho mai avuto. È sempre stato tutto insieme, possibile, nell'aria. Nonostante mio padre lavorasse e mia madre fosse casalinga, non ho pensato a fare un lavoro. Il lavoro è una cosa che serve per campare, al massimo bisognerebbe lavorare tre ore al giorno. Il lavoro a volte ammazza tutto. Se lei in questo momento pensasse che quello che fa è un lavoro, avrebbe questo entusiasmo? Nella vita contano le passioni».
Ora divertiamoci con il gioco dei pregi e dei difetti.
«Beh, io non parlerei di difetti, semmai parlerei di caratteristiche. Per quanto riguarda i pregi posso dire di avere un'ottima memoria per certe cose, ovviamente la musica; per altre ricordo poco o niente. Questo lo chiamo salvavita che mi dice che questa cosa non è importante e la posso lasciare andare. Vale per tante altre cose, per esempio è il lato bello del jazz; è vivere il presente. Un mio amico diceva il passato e il futuro sono due mostri che si mangiano il presente».
A proposito di cose pregevoli e del suo presente, come è nato il suo lavoro appena uscito?
«Avevo voglia di scrivere pezzi nuovi e il suono che avevo in mente mi riportava a Rio, ai musicisti del disco Carioca, tre di loro nel nuovo, Que Bom, sono ancora quelli. Suonare con queste persone è facile perché senti meno il rumore del cervello. Nella musica brasiliana c'è uno spirito particolare, un'impressionante conoscenza del fattore ritmico e l'elemento armonico che viene dall'Europa conta molto. Esattamente come nel jazz, è un linguaggio sincretista e meticcio, pieno di contaminazioni: nordamericane per l'improvvisazione, influenze africane, la melodia che arriva dall'Italia. Un nuovo mondo che mescola le cose».
Qual è il pezzo del cuore?
«In Que Bom c'è una canzone di cui ho scritto testo e musica, e non lo faccio spesso, a cui sono molto affezionato, diciamo che è il figliolo bizzarro. Si tratta della Nebbia a Napoli, nel disco cantato da Caetano Veloso. È un brano arrivato rimbalzando, non programmato, e questo fa simpatia. Un pezzo che ha una traccia di bolero e forse, pure per questo, adatto allo spirito di Caetano».
Il discorso su Que Bom porta a parlare di jazz, più in generale: come è la situazione in Italia?
«Non è certo facile tracciare una mappa per dire in quel Paese va così o nell'altro diversamente. Si può dire che qui, storicamente, non abbiamo mai avuto finanziamenti per fare jazz, in Francia e in Scandinavia sì. In realtà di questi tempi in Italia la situazione non è così male, anzi. Anche all'estero di fondi ce ne sono meno e quindi lavoriamo tutti ad armi pari. Una volta eravamo la Cenerentola di turno, ora non più. Aggiungo che se uno nella vita vuol fare il jazzista o il poeta si deve assumere le conseguenze di questa scelta. A me non risulta che Saffo, Shakespeare o Cervantes dicessero eh, però non ho il lavoro fisso. Se sei un poeta sei un poeta, poi guarda caso il problema-soldi magari non ce lo avrai».
Bisogna lavorare sodo, quando è stato il suo primo cachet?
«Il mio primo cachet l'ho preso a 15 anni per un concerto dal vivo al cinema Accademia di Pontassieve in provincia di Firenze, qualcosa come 25mila lire dell'epoca che per me erano tante. Nell'88 suonavo due volte alla settimana e guadagnavo circa 100mila lire. Il mio repertorio era il jazz degli anni Cinquanta».
Ma Stefano Bollani, oltre alle arti, ha altri interessi segreti?
«Guardo due film al giorno. I miei personaggi preferiti? Mi piace moltissimo il danese Ansen Thomas Jenders, che ha fatto quattro film come regista e scrive sceneggiature per altri registi del suo Paese. È favoloso, maneggiando i registri drammatico e comico non ti accorgi quando lui passa dall'uno all'altro, mentre guardi il film non lo avverti».
Dunque le piace il cinema, faccia il regista: cinepresa su Bollani in cucina, che cosa combina?
«Già le uova al tegame sono una cosa elaborata. Più che altro mi piace mangiare, il piatto che preferisco è riso, olio e limone ma è meglio che lo cucini Valentina, viene meglio; lo mangerei tutte le sere. Quando sono in giro invece scelgo la parmigiana e i tortellini».
E arriviamo, al capitolo cultura & libri.
«Mi appassionano i libri scientifici, sulla Fisica, sull'astrofisica, come è nato l'universo, scritti che riguardano le ipotesi sugli alieni, la vita su altri mondi. Ho letto i classici dell'argomento, vedi Peter Kolosimo. Tutto ciò mi incuriosisce perché è l'ignoto. C'è questo universo enorme di cui non abbiamo ancora concepito i confini, sebbene esistano delle teorie. C'è un enorme spazio da riempire e ci dovremmo essere solo noi. Questa è una teoria che trovo molto divertente, veramente non è razionale».
Ultimo viaggio destinazione la «classica» isola deserta: chi e/o che cosa porterebbe per «sopravvivere»?
«Prima di tutto come me porto Valentina, poi qualcosa per fare musica, direi un pianoforte. Qualcosa per riprodurre la musica perché mi annoierei a sentire solo me stesso.
In ogni caso, in ogni scelta, non potrei mai rinunciare a vedere il mondo dal mio punto di vista. Parlare è un altro discorso, mi puoi anche chiudere la bocca, ma non rinuncerei mai alla mia libertà mentale. Al mio pensiero».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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