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Invenzione, senso, bellezza. Cosa rende un'opera un capolavoro?

Dopo averla cercata presso i filosofi, la risposta arriva dagli storici dell'arte: innovazione, senso, grandezza

Invenzione, senso, bellezza. Cosa rende un'opera un capolavoro?

Quando mi chiedono con quale criterio decido se un quadro è meritevole di essere esposto (in una mostra, in un sito...) rispondo: il confronto. Confrontando numerose opere di soggetto e dimensioni simili, eseguite nello stesso periodo con la stessa tecnica, la gerarchia salta agli occhi. A questo punto nella faccia dell'interlocutore leggo perplessità, probabilmente si aspettava un metodo più sofisticato e meno contaminabile dal gusto personale. Qualcosa di più oggettivo. Quindi mi guardo bene dall'aggiungere che uso il metodo del confronto anche per giudicare i tortelli di erbette o le bottiglie di Lambrusco ossia del cibo e del vino che conosco meglio e di cui mi considero esperto assoluto.

Sarà uno strascico dell'idealismo crociano o del liceo gentiliano ma qui in Italia l'empirismo fa ancora spavento, la possibilità che critica d'arte e critica enogastronomica abbiano un elemento in comune suscita orrore. Di fronte a tale atteggiamento io stesso barcollo, temo di aver sbagliato qualcosa e mi metto a leggere, alla ricerca del criterio teoricamente fondato, Perniola e Donà. I due filosofi hanno appena pubblicato due libri sull'arte di diversa dimensione, l'uno smilzo e l'altro obeso, e di diversa ambizione, uno ambizioso il giusto e l'altro ambizioso a dismisura. Devo ammettere che ho un pregiudizio positivo nei confronti del primo, Mario Perniola, e un pregiudizio negativo nei confronti del secondo, Massimo Donà. Di Perniola mi innamorai quando vidi Il sex appeal dell'inorganico nella libreria di Isabella Santacroce a Riccione: Isabella era così bella, il titolo così seducente, ed entrambi sembravano così epocali. Di Donà mi disgustai constatando la sua grande amicizia con Massimo Cacciari (l'intelligentone che ha inflitto a Venezia il ponte più stupido del mondo, il ponte di Calatrava) e la sua non piccola inimicizia con la lingua italiana. Ma il passato è passato e ho cercato di affrontare i due libri nuovi con mente nuova. L'arte espansa di Perniola (Einaudi) porta in copertina la domanda giusta: «La sfera dell'arte si è ampliata enormemente. Qualunque cosa può essere trasformata in arte. Chi ha la legittimità e l'autorevolezza per operare questa metamorfosi?». Fa immaginare che il testo contenga la risposta, e che dalla risposta si possa desumere la definizione definitiva di arte.

La pars destruens è in effetti notevole, L'arte espansa elenca i danni causati all'arte dalla Saatchi Online («Degrada lo statuto culturale e sociale dell'artista, inflazionando il mercato di prodotti artistici») e dalla Biennale di Venezia del 2013 («Ha radicalizzato l'idea populistica secondo cui l'arte può essere fatta da tutti»). Sono insomma belle pagine di preziosa critica elitista. Il filosofo di Asti manifesta un coraggioso disprezzo per i curatori, «arruolati in massa» e spesso incapaci di concepire pensieri con gittata superiore al comunicato stampa, e per gli artisti, quasi mai «in grado di formulare una poetica, di spiegare il proprio progetto d'arte e argomentarlo». Sono d'accordo su tutto e proprio per questo sto cercando il filtro che mi liberi dalla melma di insulsaggini e futilità. Ma il filtro non lo possiede nemmeno Perniola, nemmeno dentro L'arte espansa si capisce come delimitare, e quindi restringere, il campo del merito. Qualcosa si può forse intuire quando denuncia la puerilizzazione e la pulsione di morte insite nell'idea di arte da Marinetti a Massimiliano Gioni: ci sta dicendo che la vera arte è seria, adulta, erotica e vitale? Chissà, valli a capire questi filosofi.

Massimo Donà è il colpevole di Teomorfica (Bompiani) che non si può definire un grande libro, semmai un libro grosso o, peggio, un libro gonfio: 1.196 pagine. Il filosofo veneziano giura di avere impiegato 15 anni per completare il suo temerario sistema di estetica: sarebbe stato meglio che ne avesse impiegati 16, dedicando gli ultimi dodici mesi a rileggersi. Lo ha mai fatto? Bastava potare le virgolette per risparmiare a editore e lettore qualche decina di pagine: sono innumerevoli, sia semplici che doppie, e sommandosi agli abbondantissimi puntini di sospensione, alle lunghe citazioni in lingua originale, meglio se defunta, alle troppe parole in corsivo immotivato, ai vocaboli spezzati da trattino, e ad altri balbettii ortografici, rendono le pagine di Teomorfica inguardabili ancor prima che illeggibili. Eppure mi ci sono inoltrato, alla ricerca dell'anelata formula. Facendomi largo nella selva della punteggiatura ho trovato un tentativo di rivalutazione della bellezza attraverso Tommaso d'Aquino, ho trovato un recupero di Rosmini e un coinvolgimento di Piero Coda e addirittura di Chiara Lubich (la fondatrice dei focolarini), ho trovato una lettura dell'arte del Novecento attraverso la teologia (l'astrattismo sarebbe «l'estrema declinazione di una versione rigorosamente apofatica della potenza dell'enigma trinitario»). Ma nessuna formula capace di dimostrare che Jeff Koons è grande arte o, viceversa, grande fuffa. A meno che non si consideri tale l'auspicio per una pratica che sia «ri-creazione della verità, produzione di un'azione aporetica assolutamente iniziante. Vera e propria rideterminazione dell'atto trinitario».

Visto che tirare continuamente in ballo la Santissima Trinità non è servito a raggiungere risultati miracolosi, anzi, ho pensato di lasciar perdere i teo-filosofi e abbassare il tiro, rivolgendomi ai bistrattati critici, gente tutto sommato più pratica. Secondo quale criterio si decide se un quadro merita oppure no? Per Emanuele Beluffi bisogna che descriva il nostro tempo, non l'ombelico dell'artista: «Se l'opera che ho davanti è solo uno sfogo, un'espressione autoreferenziale, allora posso farla anch'io». Per Ivan Quaroni, presentista pure lui, deve «interpretare il mondo, intuendone il senso anche nelle forme caotiche e disarticolate, perché la disarmonia e il disequilibrio sono parti necessarie del processo evolutivo umano». Per Duccio Trombadori, che invece punta sull'atemporale, deve esprimere «la vitalità della natura nelle sue perfezioni e imperfezioni». Per Vittorio Sgarbi «deve sorprendere con un linguaggio che non conoscevi, non essere ripetitiva e scimmiesca, essere al di sopra della soglia dell'artigianato, mostrare invenzione oltre che mestiere. Perché un virtuoso non è di per sé un artista».

Accidenti, ma non sto parlando con il cultore della bella pennellata? «Certamente, il mestiere è meglio averlo che non averlo, io sono comunque rispettoso del mestiere, perché produce gradevolezza e senso». Invenzione, gradevolezza, senso: due piacevoli minuti al telefono con Sgarbi producono più parametri di duemila pesanti pagine di Perniola e Donà.

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