La mostra diverte con temi tragici: che opportunismo la barca dei migranti

La mostra diverte con temi tragici: che opportunismo la barca dei migranti

Alla ricerca di qualcosa di «notiziabile» che competa mediaticamente con l'allarme «al fascio, al fascio» lanciato dal Salone del libro, ci viene in soccorso il cinismo e l'opportunismo (non nuovo) di Christoph Büchel, che è artista internazionale e svizzero e in Svizzera non c'è il mare. Confondendo la Biennale con un cimitero, ha voluto portare a Venezia, firmandolo come cosa sua, il relitto della barca affondata al largo di Lampedusa nell'aprile 2015. Si contarono allora oltre mille morti e il governo Renzi spese più di 900 milioni per estrarre la carcassa dal fondo del mare. E ora il più tragico ready made della storia dell'arte rischia di prendersi tanta parte dell'attenzione nei giorni della vernice di «May You Live in Interesting Times»: e non sarebbe giusto, perché la Biennale di Venezia 2019 è certamente una buona edizione, comunque migliore delle due precedenti, varia nei linguaggi, nei temi, nell'impatto visivo. Una mostra non di grandissimi nomi, tra quelli più conosciuti dal pubblico, ma finalmente di opere, e alcune si ricorderanno più del solito. Risultato del notevole impegno da parte degli artisti, spettacolari, anche divertenti e accattivanti.

Il curatore americano Ralph Rugoff ha selezionato solo viventi. Nessuna nostalgia per il passato. E meno male: se davvero i nostri sono tempi interessanti, che ci si prenda la responsabilità di dimostrarlo analizzando il presente senza guardarsi indietro. In quanto al futuro, le performance di Greta Thunberg sono arrivate fin qui e così la francese Dominique Gonzalez-Foerster ci dice che prima o poi la Terra sarà desertificata come Marte e il californiano Anthony Hernandez che l'immondizia a Roma c'era già nel 1999 (sarà felice la Raggi).

In questi giorni a Venezia il riscaldamento globale non è una minaccia, fa freddino ed è prevista pioggia da oggi. C'è anche nebbia, la facciata del Palazzo compare e scompare, ma si tratta di un effetto provocato dall'installazione (poetica) di Lara Favaretto. Si chiamano arti visive, però di sensi ne abbiamo cinque. Bene, usiamoli tutti.

Sia ai Giardini sia all'Arsenale troviamo gli stessi artisti a confronto con due spazi diversi e, per una volta, l'allestimento prende il sopravvento sulla maestosità del secondo spazio con un sistema di pannellature in legno chiaro che chiudono le sale e raccolgono meglio le opere rispetto alla consueta dispersione. E di belle ce ne sono davvero tante, per esempio nelle installazioni video (Ed Atkins, Christian Marclay), nell'animazione digitale (Dream Journal di Jon Rafman dura 77 minuti, ma vale la pena), nella pittura che è tanta e di ottima qualità, a cominciare dal «maestro» George Condo, e quindi l'uruguagio Jill Mulleady, la francese Nicole Eisenman e gli americani Avery Singer ed Henry Taylor.

Parecchi lavori puntano sull'impatto, sull'effetto frontale e questo da una parte è un bene perché toglie di mezzo finalmente l'insopportabile fragilità, il ricorso a ricami, pratiche artigianali, disegnini dal tratto infantile, dall'altra però favorisce letture tragiche e apocalittiche: il cancello dell'indiano Shilpa Gupta che sbattendo con violenza sgretola il muro, il gigantesco robot industriale dei cinesi Sun Yuan e Peng Yu che si muove a scatti, prigioniero in una gabbia, scartando un liquido rosso che somiglia al sangue, le scariche luminose, quasi intollerabili, del compositore giapponese Ryoji Ikeda. All'Arsenale ci sono opere che pendono dall'alto dei soffitti come impiccate - Alexandra Bircken, tedesca che taglia le motociclette, muri che (a trent'anni da Berlino) si ricompongono, come nell'installazione di Teresa Margolles formata da blocchi di calcestruzzo provenienti da una scuola messicana, tanto per ricordare che ce l'ha con Trump.

Vanno bene la politica, l'ambiente, le differenze sociali, le minoranze, le donne, ma per una volta non a discapito dell'impatto visivo e del senso dello spettacolo che Rugoff ha saputo mettere in scena, persino con ironia. Niente sermoni o pipponi teorici, niente documentari o inchieste in stile tv verità, ma sostanza narrativa, poetica e formale. Il web esiste e condiziona le nostre vite ma non lo si può ancora considerare un linguaggio artistico.

Viviamo in tempi così, dove è più facile lamentarsi e pensare al peggio, ma è pur sempre il migliore dei mondi possibili e questa mostra ci restituisce l'idea di un'arte contemporanea che il suo tempo lo sa ancora interpretare.

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