A Trento si aggirano gli spettri degli anni di piombo, quando alla facoltà di sociologia studiava Renato Curcio e all'orizzonte si profilava il terrore delle Brigate rosse. Non mi hanno sparato, per fortuna, com'è capitato al fondatore di questo giornale, Indro Montanelli, ma forse il vulnus brucia ancora di più. Un gruppo di facinorosi di estrema sinistra è riuscito a impedire che prendessi la parola alla facoltà di sociologia. Da giorni facevano cagnara e hanno appeso uno striscione all'ingresso con lo slogan «fuori i fascisti dall'università». La firma è del Cur, Collettivo Universitario Refresh, che ieri ha postato tranquillamente su Facebook una frase di Ulrike Meinhof, eroina della Raf, i terroristi tedeschi durante la guerra fredda. La mia colpa? Essere un uomo «nero» come dimostrerebbe la militanza nel Fronte della gioventù di Trieste, 40 anni fa, quando portavo i calzoni corti, fino agli articoli sul Giornale.
L'aspetto più grave è che la stessa università ha deciso di piegarsi alla violenta minoranza trovando un cavillo formale e vietando l'accesso all'Aula Kessler del Dipartimento di sociologia. Ovviamente all'ultimo minuto mentre stavo arrivando in treno dopo ore di viaggio. L'aspetto tragicomico è che a invitarmi era stato un gruppo studentesco di centrosinistra, che voleva parlare della crisi in Libia. E proprio loro sono stati «incolpati» di non avere compilato correttamente le carte. Alla fine un funzionario dell'università che neppure si è fatto vedere, mi ha confermato al telefono, un'ora prima della conferenza, che era saltata. Nonostante i costernati ragazzi che mi avevano invitato fossero nati ben dopo il crollo del muro di Berlino mi sembrava di non essere più nel 2019 in un paese libero, ma di avere fatto un salto nel tempo tornando al buio e alle prevaricazioni degli anni settanta.
A sociologia non sono neppure potuto entrare perché giravano picchetti di balordi giunti anche da fuori. La Celere e la Digos schierate poco lontano non erano in grado di fare nulla di fronte al calabraghismo dell'università, che si era piegata ai nipotini di Curcio e compagni.
Nel delirante volantino che hanno fatto circolare ero tacciato come fascista con allusioni false e tendenziose alla strage di Bologna. Per non parlare delle bugie sulla collaborazione con la casa editrici Altaforte, che in ogni caso non costituirebbe un reato. Un altro grave indizio di fascismo è avere presentato un fumetto dedicato a Norma Cossetto, la martire istriana delle foibe, decorata alla memoria dal presidente Ciampi con la medaglia d'oro al valor civile. Il filo centrale della trama nera è scrivere sul Giornale articoli critici sulle ong. Alla fine del volantino hanno pubblicato la mia faccia doverosamente a testa in giù con questa frase: «Biloslavo non deve entrare in università». E così è stato.
Per sgombrare il campo da qualsiasi dubbio sul fascismo penso che sia morto e sepolto nel 1945 con Mussolini a piazzale Loreto. Nato nel 1961 guardo sempre avanti e mai indietro, punto e basta.
L'amico triestino, Maurizio Manzin, professore ordinario di filosofia del diritto nella vicina facoltà di giurisprudenza, mi ha offerto coraggiosa ospitalità nell'aula dove svolgeva la sua lezione. Si è parlato di giornalismo di guerra e libertà d'espressione, che sociologia non ha saputo garantire.
L'unico conforto di una giornata da anni di piombo è stata la mail arrivata dal Rettore dell'università di Trento mentre rientravo a casa in treno. Paolo Collini, che era all'estero, è mortificato da quanto accaduto e ha parlato di pignoleria dei funzionari. Senza peli sulla lingua ha ammesso che a sociologia ci sono degli studenti e pure personaggi estranei all'Ateneo, che vivono nella nostalgia di una stagione che non esiste più. Il Rettore ha ribadito che l'università rimane un luogo aperto e libero, anche se al sottoscritto questa libertà è stata negata. E mi ha invitato a tornare a Trento per la conferenza vietata dagli estremisti di sinistra. Accetto volentieri a patto che si tenga a sociologia nell'aula negata dall'Ateneo per timore dei violenti.
Di tutta questa storia rimane la profonda amarezza per un Dipartimento universitario, che dovrebbe
essere tempio del sapere e della tolleranza, ma per quieto vivere o semplice pavidità si è piegato agli intolleranti. E soprattutto non è stato in grado di difendere fin dall'inizio, a spada tratta, la libertà di parola.
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