È un vero dilemma quello che attanaglia gli ebrei americani alla vigilia delle elezioni. Esso non riguarda vantaggi immediati, beni di consumo, prebende sociali: riguarda invece una concezione del mondo, e il puzzle che la compone è fatta da una parte di scelte culturali e persino morali, e dall'altra di garanzie per quello che sta a cuore a quasi tutti gli ebrei, la salvaguardia di Israele. Sin dall'inizio della campagna elettorale Hillary Clinton e Donald Trump si sono dati da fare per conquistare il voto ebraico con incontri, promesse, discorsi.
Gli ebrei che sono il 2,2% della popolazione, sono per il 70% democratici, votarono per Obama per il 65%. Oggi i democratici sembrerebbero al 64%, ma la discussione è durissima, e Trump vanta un'avanzata dei consensi. La vetrina mostra Hillary a braccetto con Bill, che rammentava sempre come il suo pastore gli avesse semplicemente imposto di proteggere Israele; mostra anche la carta patinata di Trump con la figlia Ivanka convertita all'ebraismo accanto al marito Jared Jushner che viene definito sempre «un ascoltato consigliere» del candidato repubblicano. Ma Trump non ha sfondato, e Hillary non ha consolidato. Gli ebrei americani sono come tutti gli altri americani con un tocco di moralismo in più: il loro salotto buono newyorkese è politically molto correct, pro-immigrazione, antimperialista, intellettuale, i figli laureati nelle migliori università spesso dopo uno stage «entusiasmante» in Israele, tornano e si avviano a una carriera in cui restano patrioti filoisraeliani, ma molti restano e sono i più entusiasti patrioti israeliani. I reduci liberal ci tengono a non violare quelle norme di comportamento che si attagliano a un voto pro Clinton. Ma con dubbi: la Clinton ha alle spalle, oltre alle recenti accuse, il suo ruolo di capo di uno State Department prono alla politica estera di Obama: ha approvato l'accordo con l'Iran, incerto e lesivo della sicurezza israeliana. Sulla sua politica pesano i dubbi di chi è amico di Israele, perché vi domina l'impostazione ideologica di Obama, la sua cieca insistenza nel cercare un accordo con un islam ostile, le incertezze letali sull'Irak e sulla Siria, gli errori sulla Libia, la mano debole sul terrorismo internazionale, e l'insistenza un po' paranoica sui territori palestinesi e le loro costruzioni, mentre intorno in tutto il Medio Oriente si assisteva all'ecatombe e alla fuga di massa. Questo, mentre la Clinton riceveva donazioni (un milione di dollari dal Qatar!) da Paesi arabi. E tuttavia, la prova degli anni, l'ha vista sempre schierata decisamente per i finanziamenti Usa allo Stato ebraico e per mantenere il veto che impedisce all'Onu passi estremi, come quelli che si dice che invece Obama stia progettando. Trump per altro ha una serie di guai non minori: il suo linguaggio ha persino sconfinato in affermazioni antisemite come quando ha ammiccato «a voi piace fare gli affari come li faccio io». Gli ebrei americani si identificano con lo status di una minoranza che porta la bandiera dell'ethos e della legalità. Non piace il linguaggio roccioso e la minaccia alla legalità, e simpatizzano con le minoranze ispaniche o musulmane se Trump le condanna o le minaccia. I repubblicani hanno conquistato dei cuori ebraici presentandosi ai tempi di Bush come il fronte avanzato per la democrazia nel mondo. Trump è sembrato all'inizio sulla strada della conquista degli ebrei ortodossi, conservatori come tutti i gruppi religiosi, ma adesso le indagini dicono che solo il 50% voterà repubblicano, in confronto al 70% che votò per John McCain otto anni fa. Molti vedono Trump come l'antitesi dei valori ebraici, hanno paura di essere identificati con i suoi sentimenti anti universalisti, anti minoranze, anti stranieri, con le sue affermazioni sessiste e con il suo linguaggio aggressivo, con la sua figura sociale. Dall'altra parte sono piaciute molto le sue affermazioni contrarie all'accordo con l'Iran, la sua promessa di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele, lo scetticismo verso il processo di pace come responsabilità unica dello Stato d'Israele. Posizioni espresse sempre in maniera piuttosto ruvida e decisa. Ma ha fatto molto effetto che Trump non abbia respinto il sostegno di David Duke suprematista bianco razzista capo del Ku-Klux Klan. E anche che con una gaffe insopportabile abbia invitato a un suo rally il fratello di Obama, Malik, e che poi sia apparsa una sua foto con la kefiah rossa e bianca di Hamas e la scritta «Gerusalemme è nostra, stiamo arrivando».
Una mossa che nasce dalla confusione che spesso sembra prendere il sopravvento, che non funziona per lo stile ebraico americano. Intanto una ricerca in Israele dice che la persino fra gli americani con passaporto israeliano la Clinton domina con il 49 contro il 32 per cento. Vince il vecchio classico Clinton style.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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