Il deportato in gulag comunisti: "Prigionieri costretti al cannibalismo"

Parla uno degli ultimi deportati dei gulag russi. Giuseppe Bassi si racconta al Giornale.it. Ha 100 anni compiuti il 3 febbraio scorso

Il deportato in gulag comunisti: "Prigionieri costretti al cannibalismo"

Giuseppe Bassi è uno degli ultimi deportati nei gulag russi. Il 3 febbraio scorso ha compiuto 100 anni. Quando andiamo a trovarlo nella sua casa a Villanova di Camposampiero in provincia di Padova, ci accoglie così grintoso sulla porta di casa, che i 100 anni sembra non sentirli. Con lui, nella stessa stanza c’è anche la nipotina nata il 2 febbraio scorso. In un metro quadro di stanza ci sono due persone che hanno cento anni e un giorno di differenza. Con noi c’è anche il sindaco di Villanova, Cristian Bottaro.

Chiediamo a Giuseppe cosa ricorda di quegli anni, di quando venne preso dalle truppe russe e deportato nei campi di concentramento. In prigionia ci rimase 42 mesi, dal 24 dicembre 1942 al 7 luglio 1946 passando nei campi di Tambov, di Oranki, Suzdal, Vladimir, Odessa e San Valentino.

Giuseppe Bassi nell’inverno del 42 era nella caserma di Padova al 20esimo Artiglieria. “Il 3 febbraio di quell’anno – ricorda - ho incontrato in cortile un vecchio maresciallo della caserma. Aveva in mano un foglietto: stava arruolando qualche soldato per andare in un reggimento che sarebbe partito per la Russia. Allora ho detto che mettesse in nota anche me, volevo essere come tutti gli altri. La sera quando tornai a casa dissi a mio padre che mi ero arruolato e lui mi disse: se questa è la tua volontà”.

A dicembre la chiamata arriva, ma tempo venti giorni e Giuseppe diventa prigioniero. Giuseppe ci mostra il percorso che fece dal fronte del Don fino alla valle di Arbusowka, dove la Vigilia di Natale del 1942 venne catturato dalle truppe russe. Dalla valle della morte fino ai lager con i suoi compagni se la fece tutta a piedi. “Siamo stati circondati ad Arbusowk – dice - abbiamo resistito alcuni giorni senza mangiare, dormendo al ghiaccio, sotto qualche capannone senza tetto e da lì siamo stati fatti prigionieri. Dopo alcuni giorni ci siamo dovuti arrendere, non avevamo né da mangiare, né armi per difenderci. Tre carri armati tedeschi, in nostra difesa, giravano attorno all’accerchiamento dove ci avevano rinchiusi ma finita la benzina è avvenuta la resa”. Da lì, il percorso fu tutto a piedi. “Molti morirono durante le marce, si dice che ventimila persone siano morte nel traggito per raggiungere i campi, ventimila su 100 mila”.

La vita nel campo di concentramento era dura: un tè caldo al mattino, un pezzetto di burro e 300 grammi di pane. A mezzogiorno c’era zuppa e cassia: una polentina di miglio, avena, orzo, grano e mais. Poi durante il giorno si lavorava duro. “Abbiamo vissuto così per 4 anni, ma ci sono stati prigionieri che sono stati trattenuti e hanno fatto 14 anni di prigionia". Giuseppe era geometra e dava le indicazioni con il goniometro per individuare i bersagli a cui si doveva sparare. In più, abile disegnatore, disegnava sulle cartine delle sigarette. “Era l’unica carta che avevamo – racconta - ogni Natale facevo un disegno della prigionia. Disegnavo l’interno del campo. Ne facevo settanta, ottanta copie e le mandavo agli amici”.

Nelle cartine delle sigarette, che ci mostra fiero tra le mani, disegnava anche particolari della chiesa monumentale del campo. O del campo stesso. Grazie ai suoi disegni, alcuni ora contenuti all’interno del museo del campo di Suzdal, è stato possibile rinvenire le fosse comuni. "Andando al lavoro – racconta - avevo localizzato la zona dove avevamo scavato le fosse, magari indicando il segnale della direzione del vento, sapevo dove erano situate perché le fosse le scavavamo noi".

Ma Giuseppe se è vivo, lo deve a un anello che portava al dito. Quell’anello le era stato regalato da una ragazza che si era innamorata del cugino. “Quell’anello mi ha salvato la vita – racconta - perché quando mi sono arreso al soldato russo e mi ha tirato fuori dalla fila per fucilarmi, lui si è accorto che avevo l’anello e ha detto “davaite - dammela", così lui si è dimenticato del kaput e io sono vivo”. I russi erano molto attenti agli oggetti di valore. E ancora Giuseppe conserva il suo orologio da polso. “Per i russi l’orologio da polso era una rarità, loro non li avevano. Siamo stati noi soldati a portare gli orologi e venivano pagati parecchio, anche venti, trenta rubli, rispetto al valore che avevano in Italia. Un orologio era valutato anche tre chili di zucchero e quando ho saputo questo ho preso l’orologio e me lo sono nascosto nella scarpa”.

Nel campo di Crinovaia poi racconta gli episodi di cannibalismo.

"C’era una grandiosa ex caserma della cavalleria dello Zar e in questi capannoni sono finiti circa 30 mila prigionieri del Corpo Armata Alpino - dice - Questi prigionieri si sono trovati alla mercè di soldati russi fanatici e la gente andava alla ricerca di polmoni, fegato, parti del corpo che si possono cuocere con facilità. Questo ha coinvolto anche italiani”.

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