Le risaie italiane rischiano l'estinzione. E con loro una tradizione lunga secoli. L'attacco arriva dall'Oriente e ha scatenato una guerra del riso in cui ad avere la peggio sono i nostri coltivatori, quelli che da generazioni si alzano alle prime luci dell'alba e si spaccano la schiena, quelli che vengono passati ai raggi X chicco per chicco e guai a non rispettare le regole. Loro, pronipoti delle mondine, sono da sempre i fornitori numero uno per i Paesi di tutta Europa, soprattutto quelli del Nord, totalmente dipendenti dall'Italia per soddisfare il fabbisogno. Un'alleanza talmente consolidata che per anni la metà della nostra produzione di riso è stata stoccata e imballata per varcare i confini nazionali.
Ora però sugli scaffali dei supermercati di Berlino, Parigi e Copenaghen stanno guadagnando sempre più spazio le scatole cinesi e indonesiane. E quelle provenienti dal nuovo triangolo del riso: Vietnam, Cambogia e Myanmar. In dieci anni le confezioni asiatiche sono passate da 6mila tonnellate a 370mila con una concorrenza che non sembra volersi fermare. Insomma, è un attimo che gli storici marchi del made in Italy crollino in tutta Europa.
Già il borsino dei prezzi di carnaroli e arborio a livello locale è piuttosto ballerino. La batosta targata Asia sta dando il colpo di grazia, con una concorrenza spietata (e sleale) e una crescita delle importazioni selvagge del 4.400% in sette anni. Tanto che i coltivatori italiani si sono spesso visti costretti a vendere il proprio riso a prezzi inferiori ai costi di produzione. Per fare qualche esempio: le varietà di chicchi grezzi adatti ai risotti lo scorso anno venivano vendute a 70 euro al quintale, quest'anno a 30 euro. Il riso per le minestre, come la varietà Roma, è passato da 35 a 20 euro. I dati del settore non sono incoraggianti. Su 4.263 produttori di riso e 237mila ettari di risaie, concentrati soprattutto fra Piemonte e Lombardia, «abbiamo registrato un calo del fatturato nel 2016 di circa 300 milioni di euro e, purtroppo, replicheremo gli stessi numeri anche nel 2017» denuncia Mauro Tonello, coltivatore emiliano e vicepresidente di Coldiretti. Tradotto in termini pratici significa che a rischio c'è il posto di lavoro di oltre 10mila persone tra imprenditori e dipendenti impegnati nell'intera filiera.
La storia della guerra del riso degli ultimi anni è piena di contraddizioni ma, se non altro, «risparmia» il mercato interno: in Italia (per ora) si consuma esclusivamente riso nostrano e la produzione è più che sufficiente a coprire i consumi interni. All'estero il cereale piemontese o lombardo viene scalzato dal riso asiatico, meno costoso ma nient'affatto paragonabile per qualità. Basti un esempio: i migliori ristoranti giapponesi di sushi non comprano il riso orientale ma sono fedelissimi alle produzioni italiane, guai a toccarle.
I PREZZI
Andando a guardare le quotazioni, si vede che nelle Borse di Milano, Vercelli, Novara, Mortara e Pavia il Carnaroli oggi viene venduto a 374 euro a tonnellata. L'anno scorso era valutato 728 euro, più del doppio. Ovviamente le variabili che determinano le oscillazioni sono parecchie: dal raccolto alla disponibilità della merce, dalla qualità, alle mode del momento. Ma il prezzo del riso non è mai stabile e spesso varia talmente tanto da mettere in difficoltà sia le piccole aziende agricole sia le industrie del settore. Tanto che i big dei risotti, Riso Gallo in testa, hanno cercato di sottoscrivere accordi per bloccare i listini e stabilire un prezzo fisso in base alla media dei prezzi delle ultime annate e delle condizioni di mercato. Il patto ha inizio dal raccolto del 2017 e durerà per tre anni fino alla vendita del riso coltivato nel 2019.
L'arrivo del riso dall'Oriente non ha migliorato le cose: le importazioni low cost affossano le quotazioni del made in Italy. Il motivo? La totale libertà con cui alcuni Paesi stanno operando sul mercato. Cambogia, Vietnam e Myanmar stanno addirittura pensando di fare «cartello» ipotizzando di creare una Opec del riso, così come accadde per il petrolio, per avere più potere negoziale sui prezzi. Per ora i tre Paesi, essendo in via di sviluppo, non pagano il dazio sulle esportazioni e vendono liberamente il loro riso. L'idea è quella di agevolare la loro crescita, ma i risicoltori italiani contestano: «In questo modo si arricchiscono solo quelli che sfruttano la manodopera locale a costi bassissimi, mica i coltivatori di quei luoghi, che nemmeno si rendono conto di quel che accade sul mercato».
CONCORRENZA SENZA FILTRI
Fermare l'invasione sembra impossibile: «Noi - spiegano i coltivatori della Coldiretti - abbiamo provato a far scattare la clausola di salvaguardia ma si può fare nei confronti di un solo Paese per volta. Se lo facciamo verso il Myanmar, di colpo risulta che le importazioni arrivino tutte dal Vietnam e dobbiamo intraprendere daccapo un nuovo iter. Di fatto, i Paesi triangolano fra di loro e non li pescheremo mai in fallo».
Per di più laggiù si sono organizzati: se un tempo esportavano il prodotto grezzo, punto e basta, ora lo confezionano pure. Senza regole, senza controlli ma con gli stessi diritti degli altri sul mercato. Risultato: lo scorso anno il sistema di allarme rapido comunitario ha fatto scattare undici allerte sanitarie per il riso di provenienza extracomunitaria per «presenza di residui antiparassitari, aflatossine cancerogene, infestazioni da insetti». «E poi nessuno sa che in quei posti - rincara la dose Tonello - quando muore il risicoltore, per tradizione, viene sotterrato nelle risaie per dimostrare il suo legame con la terra. Col rischio che ci ritroviamo il caro estinto pure nelle confezioni di riso». Qualche giorno fa il governo italiano si è fatto sentire. E ha chiesto ufficialmente all'Unione europea di abolire i dazi zero e applicare urgentemente la clausola di salvaguardia per tutelare le produzioni italiane. «L'Unione europea - ha denunciato il direttore generale dell'Ente Risi Roberto Magnaghi durante la sua ultima audizione alla Camera - è stata resa dipendente dalla Cambogia per l'approvvigionamento di riso lavorato. Il Paese asiatico nel 2016 è diventato il primo fornitore comunitario di riso con il 23,4%. La sudditanza dell'Europa alla Cambogia crea problemi di sovranità alimentare e di cooperazione, perché si impoverisce l'Ue senza generare sviluppo nei Paesi esportatori».
LE ETICHETTE
«Un pacco di riso su quattro tra quelli venduti contiene un prodotto straniero ma i consumatori non lo sanno» denunciano i risicoltori del Vercellese e della bassa pianura lombarda. E proprio dalla loro denuncia parte la battaglia delle etichette, unica arma per evitare che il riso asiatico fagogiti il mercato europeo. Il ministro delle Politiche agricole Maurizio Martina ha già fatto pressioni al commissario Ue, Phil Hogan, per rafforzare i meccanismi di tutela dei redditi dei produttori. Come? Almeno indicando sulle scatole il percorso fatto dai chicchi: il Paese in cui il riso è stato coltivato e quello in cui è stato lavorato e confezionato. E poi sollecitando ad apporre l'etichetta in un punto ben visibile della confezione e non mimetizzato sul retro o scritto a caratteri microscopici. Secondo una consultazione on line promossa dal ministero alle Politiche agricole, l'82% degli italiani vuole leggere sull'etichetta l'origine del riso che compra. Un «referendum» inequivocabile che sprona a mettere dei paletti chiari nel settore. L'etichettatura servirà anche a tutelare le varietà italiane. «Il Carnaroli è vero Carnaroli solo al 50% - denuncia la Coldiretti -. Il vero Arborio? È solo in una scatola su dieci». In ballo c'è un provvedimento chiave che mira a dotare la filiera risicola di strumenti giuridici basati su criteri oggettivi e trasparenti per poter classificare, dal punto di vista della vendita, le numerose varietà.
E che valorizzerà la denominazione «classico» in etichetta consentendola solo alle varietà capostipite. Più trasparenza sarà garantita anche dal registro dei risi, che catalogherà tipologie e caratteristiche di ogni chicco.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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