Non sempre si fa fatica a far fatica. Non sempre chi sceglie di portare a termine imprese che sembrano impossibili è un campione, un superatleta, uno sportivo accanito. Capita nelle sfide di lunga distanza come le maratone, nelle gare in montagna, nelle traversate in mare o in qualche deserto africano che da qualche anno vedono al via centinaia di persone. Ma capita soprattutto nel triathlon dove si nuota, si va in bici e alla fine si corre. Molti dicono che sia una moda, la nuova frontiera del fitness. E infatti sono sempre di più quelli che s'infilano in questo tunnel che, nel bene o nel male, la vita un po' te la cambia. «La molla che fa scattare la voglia di far fatica in una persona che non è un atleta di professione - spiega Andrea Colombo, ex azzurro di atletica ed oggi psicologo dello sport all'Università Statale di Milano - è sempre il desiderio di cambiare. La volontà ad una certa età di dare una svolta alla proprie giornate, di rivedere uno stile di vita, di dimostrare qualcosa soprattutto a se stessi».
Così capita che improvvisamente ad una certa età, si decida di alzarsi dal divano e di abbandonare sul tavolo il telecomando della tv per cominciare a complicarsi la vita. Tre sport tutti insieme, dalle distanze brevi a quella olimpica che sono 1500 metri di nuoto, 40 chilometri in bici e 10 di corsa finale. Poi c'è l'ironman, che sta al triathlon come i 100 metri su una pista d'atletica alla maratona. È l'approdo finale, la sfida più affascinante e desiderata. È la fatica all'ennesima potenza, un viaggio di 3,8 chilometri a nuoto che è come attraversare lo Stretto di Messina anzi di più, 180 in bicicletta che è come andare da Milano a Bologna in autostrada e una maratona, 42 chilometri di corsa per finire e arrivare al traguardo. Una follia. O forse no. Comunque, da qualsiasi verso si prenda, una fatica immane, innaturale, esagerata e forse anche un po' assurda. Una fatica che per i campioni dura otto ore, minuto più minuto meno, per gli altri dai più bravi ai più scarsi arriva anche a sedici, diciassette, diciotto. Continua, senza mai fermarsi. Si parte all'alba si arriva a notte fonda.
DAL DIVANO ALLA STRADA
Lo scorso anno, gli italiani che hanno concluso un ironman sono stati più di 1200, come riporta con precisione certosina il sito di Marco Scotti, l'organizzatore di Elbaman, la prima sfida italiana su questa distanza. Pochi o tanti, dipende dai punti di vista. Pochi se si pensa che gli iscritti alla Fitri, la Federazione italiana di triathlon in Italia sono più di 23mila con una crescita pressoché costante negli ultimi anni; tanti, tantissimi se si pensa alla difficoltà di una gara così. Oggi in Italia, oltre all'Elbaman, ci sono altre due gare: il Challenge di Venezia che ha debuttato lo scorso anno partendo dall'Università Ca' Foscari e l'Ironman Italia che si disputerà per la prima volta nel nostro Paese quest'anno a Cervia, in Romagna. E tutte e tre queste sfide vanno verso il tutto esaurito che la dice lunga sulla voglia che c'è di far fatica di un popolo che, un po' in ritardo rispetto all'Europa, si sta riscoprendo sportivo.
Ma chi sono questi uomini d'acciaio? Superatleti allenatissimi, con gli addominali a tartaruga e gli occhi della tigre? Chi corre per vincere sì. Ma non tutti corrono per vincere. Anzi. La maggior parte delle persone che si iscrivono a questo tipo di gare sono infatti gente assolutamente normale, comune, il nostro vicino di casa o di scrivania. Basta andare a vedere l'arrivo di una gara per rendersene conto: «Mediamente non più giovanissimi - spiega Matteo Gerevini, organizzatore del Challenge di Venezia -. Oltre 40 anni di età, mai fatto sport agonistico nella vita con una professione impegnativa ma non fisicamente, non operai per intenderci. Persone con buone disponibilità economiche ma soprattutto con la possibilità di gestire il tempo. Non legati agli orari di lavoro. Prima provano con una mezza maratona o con la maratona ma poi scelgono l'ironman perché permette loro di non massificarsi. E in questa avventura coinvolgono la famiglia, che viaggia con loro, segue le gare, fa il tifo e soffre per loro in una sorta di osmosi o di pietas che è unica di uno sport così, non succede ad esempio per una partita di tennis o per una partita di calcetto. All'inizio erano solo uomini, negli ultimi anni sta crescendo vertiginosamente anche il numero delle donne».
GLI INSOSPETTABILI
Professionisti, avvocati, manager, imprenditori disposti a spendere tempo e denaro per allenarsi. Soprattutto benestanti. Perché queste gare costano. Costa iscriversi perché per un pettorale che dà il diritto a gareggiare si possono spendere anche fino a 700 euro. Costa attrezzarsi perché tra bici, scarpe, caschi e mute per nuotare spesso si arrivano a sborsare decine di migliaia di euro. Costa viaggiare e costano gli alberghi perché spesso le gare sono in giro per il mondo.
«Ovvio che una sfida così è più che impegnativa e ci si deve arrivare allenati - spiega Fabio Vedana, preparatore atletico già responsabile della nazionale élite azzurra di triathlon e di quella olimpica svizzera che segue però anche diversi amatori - ma anche se può sembrare assurdo per chi non corre per vincere la differenza non la fa il fisico ma la testa. Certo ci si deve preparare: diciamo che negli ultimi due mesi prima di una gara servono almeno due ore e mezzo di allenamento al giorno ma al traguardo di una sfida così ci si arriva solo se c'è una grande motivazione». E infatti ci sono «uomini d'acciaio» che mai si direbbe. Che hanno fisici da impiegati e neppure troppo allenati, buoni a prima vista forse solo per una partitina di tennis la domenica mattina con i colleghi, per una corsetta al parco col cane, per una biciclettata in famiglia sulla ciclabile. Ma la fatica non è solo un fatto fisico. È qualcosa che ti scatta dentro. C'è un «X factor» anche qui. È la testa che muove il corpo che ti permette di arrivare dove spesso neppure si immagina, che comanda ma che rischia di non staccare più. E il benessere regalato dalle endorfine diventa dipendenza: «Assolutamente sì, il rischio c'è - spiega Colombo -. Lo sport di lunga durata crea dipendenza fisica e mentale. Ed è una dipendenza a tutti gli effetti che può avere derive pericolose. Molte persone si trovano ad impostare la loro giornata in funzione dell'allenamento o della gara che devono fare, e tutto il resto passa in secondo piano.
LA DROGA NELLE SCARPE
C'è un bisogno assoluto di muoversi, di allenarsi o di gareggiare perché solo così si sa che poi arriverà una condizione di benessere». La parola d'ordine è equilibrio, ma quando la fatica diventa abitudine quotidiana, piacere, premio, non è facile trovarlo: «La raccomandazione è quella di riuscire a proteggere anche le altre identità della persona» aggiunge Colombo. «Continuare a curare al di fuori dell'attività fisica gli affetti, le relazioni sociali, le attività culturale. Prendersi delle pause e rendersi conto che le gratificazioni e il benessere possono provenire anche da altre attività». Daniel Fontana, uno dei più famosi triatleti azzurri, due olimpiadi alle spalle ad Atene e Pechino che di Ironman ne ha fatti e ne ha vinti, ripete spesso che questa gara è un «romanzo», una storia tutta da scrivere e ogni volta diversa, senza certezze e senza un finale scontato.
Una storia che comincia una quarantina di anni fa alle Hawaii durante la premiazione di una gara su una spiaggia della Big Island quando quattro marines ubriachi discutono di quale sia lo sport più duro in assoluto. Uno dei tre, John Collins ha un'idea, una nuova sfida che sia il risultato di 3 gare dove bisogna buttare il cuore oltre l'ostacolo: la Waikiki Roughwater, 2,4 miglia di nuoto più la Around Oahu Bike Race con 112 miglia in bici e la Honololu marathon con 26,6 miglia di corsa. Tutte di seguito. Sarà il primo Ironman della storia, un mito, un'avventura che pare un peccato di presunzione figlio di quella «ubris» che tanto fa arrabbiare gli Dei quando invece bisognerebbe averli dalla propria parte.
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