Ma io difendo gli "indaffarati" che il Papa ha condannato

Ma io difendo gli "indaffarati" che il Papa ha condannato

Siamo degli «indaffaratisti» poco propensi alla contemplazione e a rivolgere lo sguardo al Signore. Così ha detto il Papa nell'omelia della Messa celebrata ieri alla Domus di Santa Maria in Vaticano, inventandosi una nuova categoria sociologica della modernità. Perché l'indaffaratista non è il business man: è molto peggio. Si può supporre che quest'ultimo, seguendo una labile vocazione calvinista, dopo aver fatto i suoi affari, abbia tempo per molto altro, compreso la contemplazione del Signore, la lettura del Vangelo, l'ascolto della Parola di Dio.

Nell'indaffaratista, papa Francesco vede non solo chi è lontano dalla vera vita cristiana, ma anche dai veri affetti che riguardano la famiglia, i figli. Una persona, cioè, che rinnega i valori autentici dell'esistenza. Ma in nome di che cosa? Del denaro? Dell'eudemonismo? Dell'egoismo? In nome di tutto questo. Dunque, cosa condanna il pontefice? L'homo faber, vale a dire: lo sviluppo stesso della modernità. O, meglio, si può dire che l'indaffaratista è l'antico homo faber divenuto moderno. Infatti, un passaggio essenziale della sua omelia è: «Sempre il linguaggio delle mani, sempre fanno del bene, ma non del bene cristiano: un bene umano. A questi, manca la contemplazione».

La modernità vive l'ossessione dell'azione: chi ha spiegato l'ansia del fare propria dell'uomo del nostro tempo è Goethe nel suo Faust. Nulla di ciò che ha fatto soddisfa Faust, qualunque cosa che abbia ottenuto gli rimane indifferente, perché ad avvincerlo e a tenerlo incatenato alla sua ansia è l'azione inesauribile: questa sua ossessione avrà fine quando, proprio al termine della sua vita, contemplerà l'assoluta bellezza e pronuncerà quella fatidica frase che supplica l'attimo di arrestarsi: «Fermati, sei così bello!».

È forse la bellezza inesprimibile del volto di Dio che risplende nel creato ciò che chiede papa Francesco? Una prospettiva simile a quella del pontefice, riprendendo la tesi di Goethe, l'aveva delineata nel secolo scorso il filosofo francese René Guénon. L'azione, egli sostiene, è una modificazione momentanea dell'essere, è pura illusione, e all'illusione dell'azione contrappone la contemplazione. Gli occidentali mettono l'azione al di sopra di tutto, e la conseguenza è il dominio economico sulla complessità della vita.

Ecco perché siamo degli indaffaratisti: l'homo faber è uomo dell'azione non della contemplazione. E il pontefice credo in questo caso come Guénon vede la decadenza dell'Occidente nella subordinazione della contemplazione all'azione. Ma resta, comunque, la questione: perché siamo destinati all'azione? Un atto di volontà che almeno sia in grado di riequilibrare azione e contemplazione potrebbe essere sufficiente a frenare o persino arrestare la decadenza dell'Occidente, cioè, almeno, a contenere l'indaffaratismo dell'uomo d'oggi? Di certo papa Francesco auspica un mutamento del nostro comportamento: guardare dentro al nostro cuore e comprendere cosa stiamo perdendo quando ci dedichiamo con tanta assolutezza ai nostri affari. Non a caso, l'unico importante riferimento nella sua omelia alla vita laica dell'indaffaratista è la mancanza d'amore verso i figli, privati di ogni attenzione a cominciare dalla cosa più semplice: il gioco da fare insieme.

Allora la precedente domanda

sul nostro essere destinati all'azione diventa questa: quale educazione può farci comprendere i limiti dell'azione? Un'educazione estetica: la Parola del Vangelo che fa conoscere la bellezza del creato. Dunque, la bellezza.

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