Libia, fatto l'accordo ma serve un Gheddafi

Libia, fatto l'accordo ma serve un Gheddafi

Da una parte un re travicello come il premier libico Fayez Serraj incapace persino di controllare il marciapiede al di là del proprio palazzo. Dall'altra un primo ministro a scadenza limitata come il nostro Paolo Gentiloni. In mezzo un accordo tra Italia, Unione europea e Libia per fermare i trafficanti d'uomini. Un accordo che sembra la versione rivista e corretta dei respingimenti concordati nel 2008 da Silvio Berlusconi e Muammar Gheddafi, ma bloccati, nel 2012 dalla Corte europea di Strasburgo perché definiti contrari ai diritti umani. Cinque anni e un milione di profughi dopo Italia ed Europa sarebbero anche pronti a far marcia indietro. Il problema però si chiama Serraj. Berlusconi firmò un'intesa con un leader controverso, ma in grado di controllare le coste, il territorio e (parzialmente) i confini della Libia. Gentiloni deve vedersela con un premier fantasma, incapace di garantire il blocco dei migranti all'interno delle proprie acque territoriali e far rispettare le due opzioni su cui si basa l'accordo.

Partiamo dal limite delle acque territoriali. L'unico escamotage per riprendere, seppur tacitamente, quei respingimenti rivelatisi gli unici in grado di bloccare partenze ed evitare tragedie (nel 2010 si registrò il minor numero di disastri con soli dieci morti) è operare entro quel limite delle dodici miglia che permette, in base al diritto internazionale, di riportare a riva barconi e migranti. In questo scenario una prima opzione, assolutamente ardita, prevede che il premier di Tripoli autorizzi le navi militari della missione europea Sophia a bloccare i barconi all'interno delle acque territoriali libiche. L'opzione - prima ancora di suscitare la reazione di Khalifa Haftar, il generale pronto a ergersi a paladino dell'inviolabilità della Libia con l'implicito sostegno di Russia ed Egitto - innescherebbe la rivolta delle bande di trafficanti e miliziani. Bande pronte a estromettere Serraj pur di salvare il bottino da trecento milioni di euro, garantito ogni anno dal contrabbando di umani. L'opzione alternativa prevede che il blocco dei barconi venga affidato a una guardia costiera libica addestrata ed equipaggiata a spese dell'Italia e dell'Ue. In questo modo Serraj avrebbe qualche speranza di sopravvivere. Italia e Ue rischierebbero, invece l'ennesima beffa libica. Motovedette ed equipaggi pagati con i nostri soldi potrebbero infatti finire non al servizio di Serraj, ma degli stessi banditi che avrebbero dovuto bloccare.

In entrambe le opzioni la sorte peggiore spetterebbe ai migranti riportati sulle coste libiche. Stando a quanto auspicato da Gentiloni e dai leader europei i disgraziati verrebbero internati in campi gestiti da solerti funzionari dell'Onu in attesa di un ipotetico rimpatrio. Molto più probabilmente, però, ricadrebbero nelle mani dei loro sfruttatori decisi a usarli non più come merce pagante, ma come ostaggi, da usare per ricattarci e costringerci a mettere fine al blocco dei barconi. Il risultato migliore sarebbe una pessima figura. Il peggiore sarebbe il coinvolgimento in una spirale fuori controllo che ci costringerebbe a inviare una missione militare in terra libica per garantire la sicurezza dei migranti respinti.

Uno sviluppo potenzialmente nefasto visto che a quel punto non dovremmo vedercela solo con trafficanti e miliziani, ma anche con un generale Khalifa Haftar pronto ad accusarci di avere invaso il suolo libico. O meglio a farci capire che l'uomo con cui stringere accordi non è più Serraj, ma soltanto lui.

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