“Ho visto la foto del ragazzo in televisione ma io qui non l’ho mai notato”. Nella moschea di Licola dicono di non conoscerlo Alagie Touray, il 21enne del Gambia arrestato venerdì scorso per terrorismo. Sono le 20 quando arrivano i primi musulmani per la preghiera. È l’imam ad aprire il cancello arrugginito rimasto chiuso per tutta la giornata. E solo da quel momento iniziano ad accorrere i fedeli. “Noi abbiamo appreso la notizia dai telegiornali”, riferiscono. “Non sappiamo che hanno arrestato qualcuno. Io ho sentito che la settimana scorsa la polizia stava cercando un ragazzo”, l’imam dichiara al telefono nel primo pomeriggio. Non vuole dirci il suo nome. Alagie pare che frequentasse la moschea di cui lui è il capo spirituale. Ma dice di non sapere nulla e afferma: “La moschea è come un supermercato, non posso chiedere a chiunque entra chi è e come si chiama. Noi apriamo per la messa, poi, quando finisce, escono tutti e chiudiamo”. Il venerdì arrivano anche in un centinaio per la preghiera. Si riuniscono nei locali ubicati in via Licola Mare, nel sottoscala di un palazzo malandato di tre piani. L’immobile sembra abbandonato, se ne sta cadendo a pezzi, e invece risulta semiabitato. All’ingresso della moschea c’è un’insegna malridotta. “L’ha distrutta a pugni un immigrato che recentemente si è buttato giù dall’ultimo piano del palazzo”, rivelano alcune persone del posto che gironzolano tra telecamere e giornalisti accorsi all’esterno della moschea. “Quando sono in tanti occupano anche la traversa dove si trova la seconda entrata”, riferiscono. “Si riempie di ragazzi di colore, qua non si può passare – racconta poi un residente - ci sta tanta puzza, però sono tutti molto tranquilli, non danno fastidio. Alcuni li conosciamo pure”. La sua bambina va a scuola con uno dei responsabili della moschea.
La comunità musulmana a Licola è prevalentemente di origine africana ed è in parte ben integrata. È formata da immigrati presenti da tanti anni a Licola: nalle frazione di Pozzuoli che si estende fino al comune di Giugliano si sono creati una famiglia e rincasano alla fine della giornata lavorativa. Poi ci sono quelli approdati da poco su quella parte della riviera flegrea: in molti alloggiano nei centri di accoglienza per migranti allestiti in alcuni degli hotel del posto, un tempo meta di vacanzieri, quando Licola era una ancora un'apprezzata località balneare. Nell’hotel Circe alloggiava Alagie Touray. Era sbarcato in Sicilia a marzo del 2017 ed era stato ospitato in quell’albergo dove ieri nessuno ha voluto parlare. “Non può entrare. No, per piacere”, sbotta un ragazzo appena mettiamo piede nella struttura. Dice di essere un mediatore culturale e di lavorare per la cooperativa che gestisce il centro. Parlare con un responsabile? Non è possibile. Con il titolare dell’albergo? Nemmeno. Qualcuno si lascia sfuggire su Alagie: “A noi sembrava un bravo ragazzo, non faceva nulla di strano”. Ma proprio in quella struttura ha registrato con uno smartphone il video nel quale presta giuramento al califfo Al Baghdadi: "Giuro fedeltà al califfo dei musulmani Abu Bakr Al Quraishi Al Baghdadi, nei momenti difficili e facili, nel mese di Rajab giorno 2, e Allah è testimone di quello che dico".
Un giuramento con cui, secondo gli inquirenti, "manifestava volontaria disponibilità al compimento di atti di violenza terroristica". Registra il video per quattro volte. Poi due giorni dopo, il 12 marzo, contatta tramite Telegram un altro uomo, su cui ora si sta indagando. Gli chiede di "pregare perché sono in missione e quando si è in missione c'è bisogno delle vostre preghiere e del Corano". "E' chiaro che il giuramento registrato due giorni prima della chat è propedeutico a una missione da compiere per la quale Touray ha bisogno di essere sostenuto dalla preghiera ed è consapevole di non potersi più far sentire e si preoccupa che l'altro possa esporsi scrivendo quando lui non può rispondere", scrive il gip Isabella Iaselli che il 24 aprile scorso ha convalidato il fermo del pm. Bocche cucite anche in un altro centro di accoglienza per migranti, nell’hotel Panorama, dove un’operatrice gentilmente ci butta fuori: ci obbliga ad uscire accompagnandoci fino all’esterno.
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