Napolitano, il comunista che prima spara e poi scappa

Fascista, stalinista e filoamericano, l'ex capo dello Stato è maestro nell'arte di colpire e darsela a gambe

Napolitano, il comunista che prima spara e poi scappa

Nella sua intervista di ieri a Repubblica Giorgio Napolitano dà prova della sua storica spudoratezza, che coincide con la spudoratezza della storia e delle sue manipolazioni. L'ex capo dello Stato è uno che, per attitudine e antico addestramento, conosce l'arte di colpire e poi scappare a gambe levate. Un'abilità che, in parte, gli viene dalle antiche guerre intellettuali dei Gruppi universitari fascisti, i cui più abili campioni come Pietro Ingrao - passarono poi armi e bagagli nel Pci di Palmiro Togliatti, e poi, naturalmente, dalla doppiezza staliniana, togliattiana e di tutto l'apparato di cui è stato un leader particolarmente eminente perché considerato elegante e con una infarinatura di inglese quando i comunisti studiavano il russo e i più pessimisti il cinese.

Con Palmiro Togliatti, detto non a caso il Migliore, Napolitano commise delitti riconosciuti con elegante disincanto, per poi fondare molti anni dopo la morte di Togliatti la corrente interna dei «miglioristi», come dire degli allievi più scaltri del vecchio capo. L'ha fatto sempre colpendo e poi scappando a gambe levate, ma con un'espressione timidamente dubbiosa, come a dire «Chi? Io?». Negare e minimizzare sono stati raffinati al livello di arti marziali, per quel tipo di intellettualità del vecchio Pci. Nel 1956, quando il Partito comunista italiano era una potenza ideologica, Togliatti, spalleggiato da Napolitano e dal cinese Mao Zedong, costrinse la riluttante Unione Sovietica a schiacciare con le divisioni corazzate gli inermi insorti di Budapest che manifestavano contro il Partito comunista chiedendo libertà e democrazia. Ieri Napolitano ha preteso di far credere che l'operazione militare neocoloniale franco-inglese scatenata sotto le intrepide bandiere dell'Onu contro la Libia di Muammar Gheddafi nel 2011 fu una nobilissima guerra perché combattuta in nome della stessa libertà e democrazia contro cui aveva chiesto l'intervento dei carri armati russi a Budapest. Naturalmente gli ungheresi fatti uccidere da Napolitano, Togliatti, Mao Zedong e Nikita Krusciov sapevano che cosa fossero libertà e democrazia, mentre i libici, così come i siriani, gli egiziani, i libanesi e gli arabi musulmani in genere, non ne avevano mai avuto idea politica e pratica.

Napolitano sa oggi, come sapeva ieri, che Gheddafi era un dittatore come tutti gli altri nell'area, ma era diventato uno strumento importante e funzionale della politica estera italiana di Silvio Berlusconi, il quale era riuscito ad ottenere il controllo navale delle coste libiche e il blocco dei flussi migratori oggi incontrollabili. Gheddafi era un elemento di successo personale di Berlusconi e anche per questo era, per tutto il fronte nazionale e internazionale che ne voleva la fine politica, l'uomo da abbattere e far abbattere, anche per procura. Nessuna traccia di tutto ciò nella smemorata e autorevole intervista.

Napolitano sa bene, per esempio, che quando Gheddafi fu prima violentato dal suo carnefice e poi macellato come una bestia, in Italia si assisté a un'ondata razzista con manifestazioni che invocavano per il capo del governo italiano la stessa sorte. Fu, quello, uno dei momenti più sudici della nostra storia. Ma, mentre i fatti accadevano, Napolitano ritirava la mano e oggi si mostra indaffarato e formale, uno che ha bisogno delle carte geografiche e dei verbali per ricordare.

L'ex presidente elenca, fra le nobili cause del catastrofico intervento in Libia che ha distrutto gli equilibri nel Mediterraneo, la difesa delle «Primavere arabe» che, salvo quella tunisina, si sono tutte concluse in democratici bagni di sangue. Come dargli torto? Dal 1956 Napolitano è un esperto del giusto rapporto che corre fra libertà, democrazia e interventi militari. Del resto, dopo essere stato uno dei raffinati stalinisti, fuggì a destra nel Pci, formando una corrente filoamericana apprezzata dal segretario di Stato statunitense Henry Kissinger, detta dei «miglioristi», un aggettivo togliattiano, presentata allora come creatura specialista nel colpire, negare e fuggire. Per poi auto-assolversi.

L'ex presidente della Repubblica con eterno piglio giovanile si nasconde dietro le verità a geometria variabile quando simula oggi di aver preso le distanze dalla «decisione unilaterale» del francese Nicolas Sarkozy quando attaccò la Libia per sottrarla all'influenza italiana e lanciare un siluro contro Berlusconi, che era riuscito a sigillare le coste e impedire che l'intera Africa cominciasse il suo sbarco a puntate sulle coste italiane.

Sarkò attaccò con rabbia napoleonica e per odio trasparente verso il presidente del Consiglio italiano, l'ultimo eletto, come dimostrano le famose foto sghignazzanti nei confronti del primo ministro italiano. Del resto, la chiarissima operazione per liquidare per via antiparlamentare Berlusconi un vero colpo di Stato contemplava la necessità di una coalizione interna, di una coalizione estera e un'operazione militare brigantesca che si concludesse con il sacrificio umano del dittatore libico, colpevole di essere uno strumento vincente di Berlusconi che, grazie a lui, aveva sigillato le coste libiche agli scafisti e ai trafficanti di uomini.

Oggi fa veramente impressione vedere la questione umanitaria dei libici sotto la tirannia di Gheddafi spacciata come motivazione morale di una partita losca, sanguinaria

e diretta contro gli interessi italiani. Giorgio Napolitano si adoperò in tutti i modi, molto discutibili se non illeciti, per abbattere l'ultimo capo del governo che gli italiani abbiano potuto eleggere a Palazzo Chigi.

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