Anziché limitare la nostra libertà restringiamo quella di chi fornisce ai terroristi islamisti le motivazioni per ucciderci. Lo spunto lo offre sul Corriere della Sera Angelo Panebianco chiedendosi quale sia il quantum di libertà a cui rinunciare per sconfiggere il terrorismo. La risposta è semplice e parte da una formula in grado di limitare le loro libertà anziché le nostre.
La discriminante tra lecita espressione dell'islam inteso come libertà religiosa e una predicazione dell'odio da perseguire arriva dagli stessi teorici dell'islam e passa attraverso il ruolo della sharia, la legge del Corano. L'islam integrabile è quello pronto a sottoporsi all'autorità dello Stato anche quando questa è difforme rispetto ai principi religiosi. L'islam intollerante, capace di generare mostri, è quello che spinge la comunità islamica ad anteporre la sharia alla legge dello Stato. Benché tutti i teorici della tolleranza ad oltranza si sforzino di non vederla, questa tendenza è un fattore fisiologico, presente in tutte le comunità islamiche. Ed è tutt'altro che marginale. Indagini e sondaggi rivelano che una percentuale costante - oscillante tra 25 e il 30 per cento dei musulmani - è convinta di non dovere seguire le norme dello Stato, ma quelle del libro sacro. I dati statistici raccolti in una tesi per il King's College di Londra dal ricercatore italiano Michele Groppi rivelano che il 24% dei musulmani nostrani «sostiene la violenza in nome di Dio» e il 30% crede che «chi offenda l'islam e i suoi principi debba essere punito». Un'inchiesta del Sunday Telegraph dimostra che il 40% dei giovani musulmani inglesi tra i 16 e i 24 anni antepone la sharia alle leggi del Regno. Analogamente, secondo una ricerca dell'Istituto Montaigne, almeno un milione di musulmani francesi, il 28% del totale, si dice pronto a mobilitarsi nel nome della sharia prendendo posizione contro le leggi dello Stato. Il concetto di sharia è dunque la «linea rossa» che separa gli islamici integrati nel nostro sistema di valori e quelli decisi a rifiutarlo. Per proteggere l'area sana dell'islam da quell'humus potenzialmente violento ed eversivo vanno forniti ai magistrati gli strumenti legislativi necessari a colpire i predicatori che spingono parti rilevanti della comunità islamica a porsi al di sopra e al di fuori del sistema normativo. E i magistrati, analogamente a quanto fecero negli anni del terrorismo il giudice Pietro Calogero e altri suoi colleghi, devono usare quelle leggi per fare piazza pulita dei «cattivi maestri» che fomentano l'area grigia dell'eversione.
Quest'opera di pulizia deve partire dalle moschee e dai centri culturali per arrivare alle carceri e alla Rete. Deve colpire, insomma, tutte le filiere attraverso cui si diffonde non solo la propaganda dell'Isis, ma anche l'islam politico della Fratellanza Musulmana o quello salafita e wahabita. Nelle moschee e centri culturali vanno espulsi o reclusi i predicatori radicali.
Nelle carceri vanno isolati e trasferiti gli auto proclamati imam responsabili della radicalizzazione di altri detenuti. Il lavoro più importante e più complesso va fatto, però, sulla Rete. E non riguarda solo i cattivi maestri dell'islam radicale. Qui i messaggi dell'odio e la propaganda trovano ospitalità e si propagano in base ad un principio di mancato riconoscimento della sovranità statale simile a quello sostenuto dai propugnatori della sharia.
I giganti della rete, come Google, Youtube e Facebook, sostengono, anche se per ragioni meramente economiche, di rappresentare una sorta di universo estraneo alle normative dei Paesi in cui operano. E, in base a questa giustificazione, continuano a considerare i proventi pubblicitari generati dai clic sui messaggi dell'odio islamista più importanti del contenimento dello Stato Islamico e di altri gruppi terroristi.
Il media in questo caso è però parte integrante del messaggio eversivo. Dunque per i giganti del web restii ad accettare le regole degli Stati sovrani vanno previste le stesse pene dei cattivi maestri del terrore. Perché solo così difenderemo le nostre libertà e le nostre vite.
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