Perché un leader deve essere buono

Ammettiamo che sia vero, che sia «un po' troppo cattivo». E che, come al solito, anche qui Renzi faccia le cose molto più semplici di quello che sono. Come se «essere cattivi» fosse facile come dire una battuta, e non ci fossero di mezzo codici morali, visioni del mondo, istinti (che sono pur sempre lì, anche se lui non ne sa niente). Lo sapeva invece bene il filosofo francese Alain ammonendo che fare «il buon (...)

(...) tiranno non è così facile». In questo campo, dunque, sempre meglio non darsi troppe arie.

Eppoi: si sente il bisogno, oggi, di presidenti del Consiglio «un po' troppo cattivi»? Quando gli interi Stati Uniti, indipendentemente da come voteranno, sono disgustati dell'incontenibile e inutile cattiveria e aggressività dei rispettivi candidati, che avrebbero anche tratti interessanti se non mancassero così platealmente (quasi provocatoriamente) di qualsiasi tratto di bontà e amore? Quando al di là delle Alpi c'è un presidente che coi giornalisti prende in giro i poveri chiamandoli «i senza denti»? Quando il presidente delle Filippine sta forse riuscendo a risolvere il problema della droga facendo sparare a centinaia di migliaia di drogati che non smettono di farsi? Quando, tra la costernazione di molti, la politica in tutto il mondo è «guidata dalla rabbia, aggressività e disperazione», come ha scritto ieri Mark Lilla della Columbia University?

Certo, il presidente del Consiglio italiano forse annusa il vento di malvagità globale, e cerca di seguirlo. Ma la cosa è complicata, perché, appunto, non si tratta solo di un problema d'immagine, o di pubbliche relazioni. C'è di mezzo che idea hai della politica (se però ne hai una, e non ti limiti a «fare politica») e quanto alta, o bassa. C'è un'idea alta del male obbligatorio per un politico, come era per Napoleone quando diceva: «Certo che ho versato il sangue. In quanto capo di Stato dovevo farlo e ne risponderò a Dio». Ma è una concezione ancora molto Ancien régime, anche se Napoleone stesso aveva contribuito ad abbatterlo, quel regime. Oggi siamo in democrazia, e i capi devono semplicemente fare il bene comune, secondo le indicazioni del popolo (meglio se non accusandolo poi di populismo ogni volta che cerca di parlare). Per fare il bene comune, però, bisogna appunto essere buoni, non cattivi; la cattiveria non serve al bene. Si potrebbe menzionarla come colpa, ma allora sarebbe necessaria una sincera contrizione. Un copione poco adatto a Renzi con la sua concezione autocelebrativa della comunicazione, che fa sì che anche quando, come qui, parla dei suoi difetti, si lascia scappare una smorfia di compiacimento.

Insomma, fare i «troppo cattivi», anche se solo a volte (ci mancherebbe: sempre sarebbe noioso, si sa che «un bel gioco dura poco»), è più difficile che una battuta televisiva, anche se con un giornalista sottile come Minoli.

L'antenato del cattivo, nella politica moderna, è infatti (come ricorda la filosofa morale Simone Weil) un tipo imbarazzante, il rivoluzionario russo Michail Tomskij. Quello reso famoso dal motto: «Un partito al potere, tutti gli altri in prigione». In tempo di referendum, non fa affatto ridere.

Claudio Risé

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