“I friulani sono la gente più coraggiosa d’Italia”: parola di Indro Montanelli, che così fermò il carattere di questo popolo di frontiera, ma autenticamente italiano. Però, aggiungeva il Cilindro di Fucecchio, anche loro hanno avuto paura quando gli è tremata la terra sotto i piedi. E chi non l’avrebbe avuta, trovandosi nell’inferno sulla terra?
6 maggio 1976, 40 anni fa, ore 9 di sera, la terra trema a Gemona, magnitudo 6 punto 4: 990 morti, oltre 90mila case distrutte o danneggiate, 100mila sfollati, decine di paesi rasi al suolo, 4.500 miliardi di lire di danni. E all’epoca la Protezione civile era un progetto nella testa del sottosegretario all’interno Giuseppe Zamberletti, ma non esisteva ancora.
“Ho partecipato alla cerimonia commemorativa con il presidente della Repubblica Mattarella. Una cosa commovente”. La voce di Gabriele Renzulli è incrinata. Già parlamentare del Partito socialista, responsabile nazionale della sanità, all’epoca era il giovane segretario regionale del Garofano. “Il consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia si riunì a Trieste, il caos a Udine era tale che non potemmo fare altro. Tutti i partiti di maggioranza e di opposizione, come il Psi, si unirono per ricostruire al più presto ciò che era stato distrutto. Tutti uniti attorno al presidente della regione, il democristiano Antonio Comelli, uno dei protagonisti della ricostruzione. Un vero friuliano. Riuscì anche a ottenere finanziamenti importanti in un momento economico difficile per l’Italia”. Immagini, ricordi di una passione politica autentica che le nascenti Regioni sembravano poter coltivare e far crescere. “Sui muri c’era scritto Friul ringrazie e non dismentee, cioè i friulani non si limitano a dirti grazie ma ti mostrano la gratitudine. Una solidarietà incredibile anche dalla Chiesa e dai fogolar della diaspora friulana nel mondo”. La sera del terremoto resta indelebile nella mente: “Dopo essere scappato in strada a Udine, con alcuni amici e compagni andammo in provincia per prestare i primi soccorsi”. Un viaggio all’inferno: Gemona, Maiano, Colloredo di Monte Albano. “La polvere ti faceva perdere l’orientamento- ricorda Renzulli. Ma anche in quel caos, la gente non perdeva la testa”. Oggi cosa resta? “Il municipio di Venzone ricostruito pezzo per pezzo dopo aver numerato le macerie è una testimonianza emblematica. Anche per i giovani”.
La polvere, il caos, quella scritta sui muri rimasti in piedi, Friul ringrazie e non dismentee. Anche questi frammenti sono nella memoria del biologo Riccardo Strada, all’epoca studente universitario a Padova e responsabile del primo gruppo tecnico di protezione civile in Italia, inquadrato nei vigili del fuoco e con la supervisione del sottosegretario all’interno Giuseppe Zamberletti. “Partimmo a mezzanotte da Padova- ricorda Strada. Riuscimmo ad arrivare a Venzone solo alle prime luci dell’alba del 7 maggio. Ci avviamo verso una montagna di macerie, il paese non esisteva più. Un vecchietto ci viene incontro, ci dice che una sua amica è intrappolata sotto un cumulo di macerie e lui ha cercato di tirarla fuori tutta la notte inutilmente. Il caposquadra Ilario Vezzù guarda lui, poi guarda il cumulo di macerie e gli dice in veneto: “Me spiase, noialtri cerchiam i vivi, no i morti”. Non era cinismo, ma scelta delle priorità in quei terribili momenti”. Una specie di corazza che si forma in situazioni estreme, un riflesso condizionato di chi fa il soccorritore: “Le uniche pause di dolore le prendevamo quando strappavamo alle macerie i corpi dei bambini. Era impossibile non piangere”. Strada diventa poi assistente del comandante operativo dei vigili del fuoco a Gemona, l’ingegner Sangiorgi. Un altro inferno in terra nei ricordi di Strada: “C’era una polvere incredibile, un caldo soffocante, le case pericolanti ci costrinsero a proibire che qualsiasi velivolo attraversasse i cieli sopra Gemona. Pensi che un giorno si presenta il plenipotenziario del presidente USA Gerald Ford che voleva mandarmi dei chinook, gli elicotteri da combattimento! Con spezzoni di case che rischiavano di crollare al primo vento!”.
E lo spirito friulano? “Non dimenticherò mai alcuni episodi. Una volta sono saltato su una ruspa per impedirne la marcia su gemona. La guidava un tizio che voleva sgomberare le macerie e ricostruirsi casa esattamente dov’era e com’era prima del terremoto. Un’altra volta recuperammo i preziosi dalla cassaforte di un gioielliere che per ringraziarci ci regalò il bene più prezioso che aveva dopo il contenuto della cassaforte: alcune bottiglie di picolit (caratteristico vino friulano, ndr)”. Già Friul ringrazie e non dismentee, il Friuli non si limita a dirti grazie, ti mostra la gratitudine.
Araba fenice, il Friuli è rinato dalle proprie ceneri. Anche perché ha mantenuto viva la memoria del terremoto e delle maniche rimboccate e delle lacrime asciugate in fretta.
Le persone che hanno organizzato una cinquantina di commemorazioni spontanee in tutta la regione hanno ricordato
anche questo: quando abbiamo visto le macerie, le abbiamo numerate e le abbiamo rimesse insieme pezzo dopo pezzo. Più che il 6 maggio, bisognerebbe commemorare il 7 maggio 1976. Il Friuli Venezia Giulia è rinato quel giorno.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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