Dell'elenco fanno parte anche quelli cui sarebbe convenuto restare in carcere un po' più a lungo: come Vitale Morcea, un giovane moldavo che si era fatto beccare a Sondrio a rubare biciclette, era stato presto liberato, si era trasferito in Toscana, si era rimesso a fare furti. E il 28 novembre scorso, a Monte San Savino, è rimasto ucciso da un gommista cui stava svaligiando il negozio.
Per tutti gli altri, per quelli che non incorrono in disavventure del genere, l'impatto con la giustizia italiana assomiglia spesso all'incontro con un bravo prete confessore, che rimbrotta e assolve con due pater e quattro ave. Il messaggio di dolore del poliziotto che - come raccontato nei giorni scorsi dal Giornale - racconta la frustrazione di chi lavora per assicurare alla giustizia indagati che vengono immediatamente scarcerati punta i riflettori su una realtà ben nota a chi frequenta i corridoi delle questure e le aule dei tribunali. Una manciata di ore, al massimo di giorni, e poi fuori. Come accade ieri anche per due degli anarchici che a Torino il 6 febbraio si impadronirono di un autobus, pestarono l'autista e distrussero il mezzo: scarcerati in attesa di giudizio.
Il principio, in teoria, è giusto: in carcere si va quando la condanna è definitiva. Peccato che la condanna arrivi dopo anni ed anni, sempre che non venga inghiottita dalla prescrizione, quando ormai l'imputato è irreperibile. Così si può capire l'incredulità delle vittime quando scoprono che il responsabile dei loro guai è già tornato in circolazione. E ancora più comprensibile l'indignazione quando il soggetto, scarcerato sulla base di una «prognosi favorevole», riprende immediatamente a fare altri delitti.
Di esempi se ne possono fare a bizzeffe, recenti ma anche remoti: perché le scarcerazioni veloci sono un fenomeno antico. In novembre, vicino Caserta, il carabiniere Emanuele Reali morì sotto un treno inseguendo tre ladri: faceva meglio a restare seduto sulla Gazzella, tanto i tre vennero scarcerati due giorni dopo. Nello stesso mese a Roma una donna viene aggredita, trascinata per strada, stuprata, i carabinieri si dannano per individuare il responsabile nell'ospite di un centro di accoglienza: in una manciata di giorni è fuori anche lui, unica sanzione il «divieto di dimora» a Roma. In dicembre a Forlì in un supermercato le guardie giurate bloccano un ladro che scappa con la refurtiva, lo consegnano alla polizia. La mattina dopo se lo ritrovano in negozio: non è un sosia, è proprio il ladro già tornato libero e al lavoro. In maggio a Milano aveva destato un certo stupore la vicenda del senegalese che in piazza del Duomo aveva aggredito e quasi linciato due vigili urbani: catturato e denunciato per lesioni gravissime, si fece il weekend in cella e il lunedì era libero con l'unico obbligo di presentarsi periodicamente in commissariato. Per non parlare del signore di Avellino che in settembre prese a martellate la convivente polacca, al termine di una lunga storia di violenze e intimidazione: tornò in circolazione ancora prima che la vittima lasciasse il reparto di neurochirurgia.
La frustrazione di poliziotti e carabinieri, insomma, è comprensibile. C'è un reato, lo spaccio di droga al dettaglio, dove a legare le mani ai giudici, imponendo la scarcerazione, è la legge stessa: di fatto, lo spaccio di strada in Italia è depenalizzato. Ma ci sono molti altri reati in cui la discrezionalità del magistrato è assai ampia, ed è qui che intervengono a volte decisioni impeccabili dal punto di vista del codice, molto meno da quello del buon senso.
Per non parlare dei casi in cui a aprire agli arrestati le porte della liberà è semplicemente la pigrizia dei giudici: come avvenne nel dicembre scorso a Sassari, dove cinque presunti terroristi islamici vennero scarcerati per il semplice motivo che i magistrati avevano lasciato scadere i termini di custodia senza chiudere le indagini. Au revoir!- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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