Nati nel 1998, legge Turco-Napolitano, i Cie, Centri di identificazione e di espulsione, avrebbero dovuto occuparsi di quegli stranieri giunti in Italia in modo irregolare che non facevano richiesta di protezione internazionale, ovvero privi dei requisiti per ottenerla.
Ne vennero messi in funzione tredici, ma dopo diciotto anni ne sono rimasti attivi solo cinque: avrebbero dovuto ospitare temporaneamente sino a 1600 clandestini, ma la cifra massima che ora riescono a gestire è di trecentosessanta. La permanenza nei Cie all'inizio non avrebbe dovuto superare i 30 giorni, nel 2011 era salita a 18 mesi, nel 2014 era ridiscesa a 90 giorni, nel 2015, stante una direttiva Ue, si è stabilita a dodici mesi. Grazie al confuso statuto giuridico che ne è alla base, dai Cie in teoria non si potrebbe uscire, ma chi se ne va non commette reato: detenzione amministrativa è la formula usata che, volendo dire tutto, non significa niente. In questi diciotto anni, degli otto Cie venuti a mancare alla conta, alcuni sono stati chiusi dalla magistratura, altri sono andati a fuoco per gli incendi appiccati dagli stessi ospiti, altri ancora per la protesta nata dalla loro stessa ubicazione sul territorio. Nel bailamme, legislativo e no, dai Cie provocato, sono venuti fuori i Cpa, Centri di prima accoglienza, come quello di Cona, ex base missilistica, dove ieri 25 operatori sono stati tenuti in ostaggio per ore da un migliaio di «ospiti», o i Cra, Centri per richiedenti asilo, come il Cara di Mineo, fonte di traffici, corruzione e malaffare, il business dell'immigrazione in pratica. Quest'anno, a fronte di circa 5mila rimpatri, ci sono altri 30mila irregolari ancora presenti sul territorio nazionale. Nel solo 2016, infine, il numero dei migranti sbarcati sulle nostre coste è arrivato alla cifra record di 200mila (di cui 25mila minori non accompagnati).
Queste cifre e questi fatti raccontano insomma un fallimento e l'idea che il ministero dell'Interno si appresti ora a varare un Cie in ogni regione d'Italia suona per la verità beffarda, se ad essa non si accompagna una chiarezza legislativa, una nuova gestione delle strutture e, al di fuori della vuota retorica con cui siamo soliti coprire le nostre incapacità operative, la consapevolezza che non si ha a che fare con numeri e/o merci, ma con persone, uomini, donne, bambini, da trattare quindi umanamente. Questo fallimento è naturalmente dovuto a molti fattori, ma il primo e il più importante lo si deve far risalire al fatto che non essendo l'immigrazione clandestina politicamente corretta si è fatto finta che non esistesse: non era un problema, non avrebbe creato tensioni, non comportava pericoli. Le paure sono state derubricate a istanze xenofobe, l'insicurezza e il malessere dei cittadini fatti passare per mancanza di senso civico, scarsa cultura dell'accoglienza, incapacità di capire le ragioni dei più deboli. Tutto ciò, unito a un cieco quanto disinvolto elogio della globalizzazione, del melting pot, della fine delle frontiere, dell'essere cittadini del mondo, ha dato vita a una miscela esplosiva che ha come scenario reale una guerra fra poveri, fra diseredati e dove le classi dirigenti appaiono sempre più sconnesse con i bisogni dei cittadini che esse dovrebbero guidare, uno scenario in cui la crisi economica è anche crisi di sistema: non si ha fiducia, non si crede più, non si è disposti a rischiare...
Per anni si è detto su queste pagine che una delle strade per fronteggiare il problema dell'immigrazione passava per accordi
bilaterali con i governi che ne erano all'origine: progetti di sviluppo, aiuti economici, eccetera. Sembra che il neo ministro dell'Interno Marco Minniti stia predisponendo un viaggio in Africa in tal senso: meglio tardi che mai.
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