Ricordo ancora che nel 1985 Storia Illustrata usci con allegato alla copertina un dono per i lettori: un sacchettino di sabbia di El Alamein. Mi affascinò pensare a quale immensa buca era stata scavata nel deserto per portare in Italia quella sabbia. Ma ancora di più era suggestivo considerare quale culto ci fosse, dopo 43 anni, per quella battaglia, peraltro perduta. È un culto che sopravvive, oggi, che di anni ne sono passati 70, e i superstiti si contano forse sul caricatore di una pistola. L'importanza di quello scontro, tanto più epico perché avvenuto per giorni e giorni, nel deserto, non basta a spiegare tanta emozione.
Fino all'autunno del 1942 le forze dell'Asse sembravano avere ancora il predominio militare. Fra settembre e novembre, però, inizia la battaglia di Stalingrado, che segna la fine dell'avanzata italo-tedesca in Russia; in ottobre la battaglia di El Alamein, nel deserto egiziano, ferma l'avanzata dell'Asse verso il Canale di Suez. In novembre, con l'accerchiamento di von Paulus a Stalingrado e la ritirata di Rommel a El Alamein, quella che doveva essere una morsa per conquistare il Medio Oriente e i suoi pozzi di petrolio diventa lo spasimo di due moncherini. Ed è inutile chiedersi cosa sarebbe accaduto se Rommel avesse vinto: sarebbe stata una guerra diversa, ma avrebbe portato lo stesso alla vittoria finale degli Alleati, perché fu una vittoria soprattutto di mezzi. Tuttavia gli italiani non lo potevano sapere. Il Nord Africa era lo scenario di guerra che li appassionava di più, per ragioni geografiche, storiche, sentimentali. Ma quello libico-egiziano era il fronte che procurava più dolori, oltre ai più gioiosi entusiasmi. Appena iniziata la guerra, il 28 giugno 1940, il maresciallo Italo Balbo era stato abbattuto per errore dalla contraerea italiana. Il suo successore, maresciallo Rodolfo Graziani, non si era distinto per intraprendenza e il 19 gennaio 1941 Mussolini dovette chiedere aiuto a Hitler. Nei mesi successivi sbarcò sulla costa libica l'Afrikakorps del generale Erwin Rommel. L'offensiva continuò nel gennaio 1942 finché, in maggio, le truppe italo-tedesche arrivarono ad El Alamein, a circa 100 chilometri da Alessandria d'Egitto. La campagna sembrava vinta, e il successo rese più sopportabile agli italiani le loro pesanti condizioni di vita.
Figurarsi con quale passione e sgomento seguirono le sorti dello scontro finale quando, dopo mesi di inattività italo-tedesca, furono gli inglesi a prendere l'iniziativa. Il generale Harold Alexander, comandante delle truppe inglesi in Egitto e Medio Oriente, affidò l'attacco al generale Bernard Montgomery, che aveva a disposizione tre divisioni corazzate e l'equivalente di sette divisioni di fanteria. Benché per numero le truppe dell'Asse potessero contrastarle, gli inglesi disponevano di una netta superiorità aerea, di nuovi cannoni anticarro e dei nuovi carri armati Sherman. La sera del 23 ottobre '42, nel silenzio della luna piena, quasi mille pezzi di artiglieria inglese spararono contemporaneamente per circa venti minuti. Alla fine del 24 l'offensiva aveva aperto profonde sacche nello schieramento italo-tedesco, ma non era riuscita ad aprire una vera breccia. Nelle prime ore del 25, Montgomery ordinò un nuovo attacco prima dell'alba, ma dovette affrontare violenti contrattacchi, in particolare della 15ª divisione corazzata tedesca e dell'Ariete. E Rommel? Non c'era. Alla fine di settembre era stato ricoverato in ospedale in Germania e sostituito dal generale Stumme che però era morto d'infarto ventiquattr'ore dopo l'inizio della battaglia. Hitler non esitò a chiedere a Rommel di riprendere il comando, ma era già tardi. Il 27 e il 28 ottobre la 15ª e la 21ª divisioni corazzate tedesche scatenarono una violenta offensiva, invano.
A questo punto fu deciso l'attacco finale, ovvero l'operazione Supercharge. L'operazione iniziò all'una antimeridiana del 2 novembre. Tutti i carri armati italo-tedeschi superstiti attaccarono il saliente britannico su due fronti, ma vennero respinti. Il 3 iniziava la ritirata, nonostante Hitler l'avesse assolutamente proibita. «Ma la decisione», commenta Winston Churchill nella sua Storia della Seconda Guerra Mondiale, «non era più nelle mani dei tedeschi».
Churchill annota anche un comportamento tedesco che dopo El Alamein sarebbe diventato una prassi: «Rommel si trovava ormai in piena ritirata, ma vi erano mezzi di trasporto e carburante sufficienti soltanto per una parte delle sue truppe e i tedeschi... si arrogarono la precedenza nell'uso dei mezzi. Parecchie migliaia di uomini appartenenti alle sei divisioni italiane, furono così abbandonate nel deserto... senz'altra prospettiva che quella di essere circondati». Il campo di battaglia era disseminato surrealmente di cannoni e automezzi distrutti. L'aviazione inglese, superiore per tutta la battaglia, attaccava senza tregua e senza contrasto lunghe colonne di uomini in ritirata verso ovest. Per gli italiani era finito, ancora una volta, il sogno d'Africa. E al nemico si apriva la possibilità di invadere l'Europa dall'Italia, dalla Francia o dalla Grecia. Sarebbe toccato all'Italia. Dove, intanto, le notizie sempre più sconfortanti, invano occultate dalla propaganda, aggravavano le condizioni di vita del popolo.
Oggi chi si emoziona ancora a leggere della battaglia di el Alamein non è necessariamente nostalgico, né tantomeno fascista o folgorato da furore bellico. Alla memoria di un popolo, sconfitto in guerra, fa bene il ricordo di avere combattuto con onore, e di avere perso perché mancavano le armi, non il coraggio.
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