Ricordo la figura di Alice Munro, la scrittrice canadese di racconti pluripremiata in patria e molto lodata anche dalla critica italiana, per averla incontrata durante un'edizione del Premio Flaiano a Pescara. Una signora anziana, esile, con abiti, o forse modi, un po' ottocenteschi, i capelli a ricci bianchi, uno sguardo gentile e distaccato. Mi sembrò un personaggio uscito dalle sue stesse pagine, e non approfondii la sua conoscenza.
Posso farlo ora con questo ponderoso volume dei Meridiani (Alice Munro, Racconti, a cura e con un saggio introduttivo di Marisa Caramella, traduzione di Susanna Basso, pagg. 1840, euro 65). La mia prima impressione è di essere di fronte a una scrittrice che ha formidabili strumenti narrativi. Parte da un paesaggio grigio, un po' anonimo, un po' fuori dalle geografie più battute, come è quello delle piccole città canadesi, da interni familiari a volte desolati, da vite insignificanti. I suoi personaggi sono comuni, spesso poveri, lontani dalla ribalta delle metropoli, indifferenti alla sontuosità della natura, privi di quello spirito di avventura che fa andare oltre i confini della quotidianità. Eppure la narrazione di questo universo apparentemente piatto procede con una forza acuminata, una precisione nitida, una passione per i dettagli, fisici e psicologici, una capacità costruttiva che avvince il lettore e non gli dà tregua.
In un racconto come Danza delle ombre felici la descrizione del polveroso party musicale nella casa della anziana signorina maestra di piano culmina nel finale in cui appaiono e suonano i bambini down cui lei si è dedicata con le sue ultime appassionate e infantili energie. Magistrale la descrizione dell'ambiente sociale, e magistrale l'attenzione ai particolari, che arriva sino a cogliere il ripiegarsi dei bordi delle tartine lasciate per troppo tempo nei vassoi. Questo calare nei dettagli e miniaturizzare in essi la propria prosa è tipico della scrittura femminile. Lo vidi chiaro la prima volta leggendo Katherine Mansfield, anche lei refrattaria di fronte alla misura del romanzo e alle generalizzazioni ideologiche cui indulgono le scritture maschili, si veda per tutte quella (che io prediligo) di D.H. Lawrence.
Sono rimasto molto colpito dal fatto che nel racconto intitolato Materiali la voce narrante e il marito Hugo, scrittore agli esordi, scherzino in un momento di intimità con i personaggi dell'autore dell'Amante di Lady Chatterley, immaginandosi lei Connie e lui Mellors, al cui sesso i due alludono chiamandolo alla Lawrence «John Thomas». Ma nella Munro non c'è traccia di mistica dell'eros come rivendicazione libertaria. Il massimo dell'erotismo è, nel racconto Cigni selvatici, la mano del pastore protestante, o sedicente tale, che su un treno in corsa si infila sotto il giornale e va a sfiorare con manovre appena accennate le gambe della sua vicina di posto, la giovane Rose, in bilico tra il disgusto e un sofferto compiacimento. In Le lune di Giove la protagonista fugge dal dolore di vedere il padre infartuato in ospedale e dal pensiero della propria figlia in fuga da lei con una visita a un planetario che la trasporta verso lontananze cosmiche sempre però controllate da una ragione vigile, priva di slanci metafisici.
È invece un robusto, classico senso del destino, compendiato nei celeberrimi versi di Orazio secondo cui è inutile chiedere che fine hanno predisposto gli dèi per noi, che compare in Nemici, amici, amanti, uno dei racconti più belli dell'intero volume. Johanna Parry, una povera, determinata domestica che ci appare mentre spedisce per ferrovia della mobilia verso Gdynia, un improbabile indirizzo del Saskatchewan, e mentre entra goffa da Milady's per comprare un abito da sposa, va verso il compimento della sua sorte e di una specie di felicità attraverso la propria volontà e l'inganno che due incoscienti ragazzine hanno tramato per burlarsi di lei, finendo per sposare davvero il fragile avventuriero Ken Boudreau.
Ma il finale del racconto, che ci mostra in dettaglio le tombe di quei pionieri, ci riporta al tono dominante nella Munro, a quel suo sguardo che fissa la realtà nella sua verità dura e non trasformabile.
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