Perché le Università sono dominate dalla sinistra? Bella domanda. E bellissimo titolo: quello del saggio di Edward Feser, professore di filosofia nel californiano Pasadena City College, cattolico di formazione aristotelico-tomistica, storico delle idee molto attento al pensiero liberale e conservatore, grande studioso di Robert Nozick e Friedrich von Hayek. Pubblicato in Italia sul nuovo numero della rivista Nuova Storia Contemporanea (nelle libreria dalla prossima settimana), l'intervento di Feser, intitolato appunto «Perché le Università sono dominate dalla sinistra?», è una straordinaria radiografia del mondo accademico statunitense - ma valida con poche varianti anche per il mondo europeo - la cui impietosa diagnosi è: egemonia progressista cronica. Una deriva incontrollata e incontrollabile il cui effetto ultimo, e più pericoloso per Feser, è l'abbandono di ideali e valori propri della civiltà europea e il sovvertimento della tradizione. Mentre la causa prima, la malattia degenerativa - come ricorda Francesco Perfetti nella breve presentazione - è ciò che per Raymond Aron rappresenta «l'oppio degli intellettuali», per James Burnham «l'ideologia del suicidio dell'Occidente» e che Augusto Del Noce definiva «neoilluminismo». In una parola: il «sinistrismo».
«L'egemonia della sinistra nelle università è così schiacciante che perfino le persone di sinistra non la mettono in dubbio», scrive Edward Feser, che stila un suo personale decalogo dei dogmi (indimostrati e indimostrabili) che ispirano i programmi di studio delle università americane nel campo della storia delle idee, delle scienze sociali, dell'economia e in generale dell'area umanistica. Ad esempio: demonizzazione del sistema capitalistico, benevola valutazione del socialismo al di là del fallimento storico, diffusi orientamenti no-global e terzomondisti, vocazione all'anti-occidentalismo, pesante inclinazione all'ateismo...
È molto raro - scrive Feser - sentire nelle moderne università qualcuno che sfidi seriamente tali posizioni ideologiche, «di solito accettate come talmente ovvie da far credere che ogni visione contrastante sia motivata da ignoranza o interesse personale, e come tale da respingere immediatamente; oppure si ritiene che non vi siano delle opinioni diverse che meritino la fatica di essere prese in considerazione». Messe in chiaro le premesse, Feser divide il suo saggio in due parti. La prima, interessante, è l'analisi delle teorie elaborate nel corso degli anni per tentare di spiegare «perché l'università sia caduta in pieno dominio della sinistra» e del perché più in generale gli intellettuali tendano a sinistra. Particolarmente curiose a questo proposito ci sembrano la «teoria del risentimento» («Se l'ultimo album del cantante XY vende milioni di copie mentre la magistrale storia del Liechentstein in cinque volumi del professor YX vende precisamente centosei copie, tutte acquistate da biblioteche universitarie, il professor YX inizia a domandarsi se il libero mercato rappresenti il sistema più equo per distribuire le ricompense economiche...») e quella della «testa tra le nuvole» («Per quanto intelligenti possano essere nelle materie astratte e teoriche, nelle questioni pratiche i professori e gli intellettuali sono considerati del tutto privi di buon senso e saggezza quotidiana: non sono cioè in contatto con il mondo reale. E poiché gli ideali di sinistra sono paradigmaticamente contrari al senso comune e scollegati dalla realtà, non c'è da sorprendersi che gli uomini di pensiero siano attratti da essi», un principio, aggiungiamo noi, che si adatta perfettamente non solo agli intellettuali che si professano di sinistra, ma anche ai politici che vogliono farsi passare per tecnici.
La seconda parte del saggio, ancora più interessante, si concentra invece sui fini di tale orientamento accademico contro il buon senso comune e distante dalla realtà da una parte, e contro gli insegnamenti dei «padri» e la tradizione dall'altro. Dove la tradizione, ovviamente, è quella occidentale, con i principi morali che ne conseguono e «la metafisica che la giustifica» («la religione cristiana non è certo l'unica ad adottare una concezione sovrannaturale dell'origine dell'uomo. Eppure nessun intellettuale, pur non considerando come serie teorie scientifiche i tradizionali resoconti sull'origine dell'uomo degli indù, dei cinesi o degli indiani d'America, si sognerebbe mai di disprezzarli: al contrario, essi fanno parte di quello splendido mosaico di diversità multiculturali che ci chiedono incessantemente di celebrare»). Ecco, dunque, il principale obiettivo della battaglia degli intellettuali progressisti (la cui influenza è amplificata dalle stesse università e dai media): la civiltà occidentale che affonda le radici nell'antica Grecia, in Roma e nell'antico Israele.
È, insomma, quella civiltà giudaico-cristiana - la quale pone, ecco il punto, una sfida morale inaffrontabile e insopportabile per la Nuova Religione Progressista - che innesta gli ideali politici dei diritti individuali, dello stato di diritto, del governo limitato, dell'ordine economico «capitalistico» e di libero mercato.Quando si dice il feroce antioccidentalismo della sinistra comodamente occidentale.
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