Ad aprile di otto anni fa andai a Malacappa - la tenuta dove venne ucciso Leandro Arpinati - perché, a 60 anni dalla morte, la combattiva figlia Giancarla e la nipote Susanna Cantamessa erano decise a installare una lapide a fianco alla casa: «In questo luogo il XXII aprile MXMXLV vennero vigliaccamente assassinati da partigiani comunisti Leandro Arpinati e Torquato Nanni». Non avrei scommesso che la lapide sarebbe durata a lungo, invece è ancora lì, sotto una tettoia modesta quando la frase è dura: al pari delle donne di casa Arpinati. La moglie Rina, che per la sua distaccata bellezza era il cruccio di molte mogli di gerarchi; Giancarla, che assistette all'assassinio del padre, Susanna, che vive ancora lì.
Lì incontrai anche Brunella Dalla Casa, allora direttrice dell'Istituto per la Storia della Resistenza nella Provincia di Bologna e studiosa, «da sinistra», del caso Arpinati. Stava lavorando al «libro della vita», il saggio Leandro Arpinati. Un fascista anomalo, ora finalmente pubblicato (il Mulino). Era un fascista talmente anomalo che Mussolini, poco prima della morte, disse: «Se non ci fossimo incontrati, sarebbe probabilmente rimasto un bravo e innocuo anarchico. Si era trasformato in un cattivo fascista ed ora è liberale, in ritardo di cinquant'anni. Mi dicono che treschi coi partigiani».
Arpinati era nato nel 1892 a Civitella di Romagna, a pochi chilometri dalla Predappio del duce, che aveva nove anni più di lui. Famiglia povera, autodidatta, diventò elettricista a Torino, prima sindacalista del Psi, poi anarchico-individualista e antisocialista. Fu tra i primi futuri fascisti a «incontrare» Mussolini, nel 1910, quando il comune di Civitella, per l'inaugurazione del nuovo mercato, chiamò a tenere un comizio il giovane socialista già famoso nella zona e gli anarchici di Arpinati lo accolsero a insulti. A metterli di nuovo in contatto, poi, fu Torquato Nanni, classe 1888, di Santa Sofia, sempre in zona, che già nel 1910 era mussoliniano, ma che rimarrà sempre socialista.
Nel primo dopoguerra Arpinati passò direttamente dall'anarchia al fascismo, anzi fu capo militare dello squadrismo bolognese, implacabile anche se non gli si possono addebitare episodi efferati. Dopo la marcia su Roma, Arpinati è convinto che si debba abbandonare la violenza, e dal '24 comincia la sua ascesa nel regime, benché non amasse le divise. Sottosegretario del Pnf nel '26, podestà di Bologna nel '27, Mussolini lo volle sottosegretario all'Interno nel '29 con funzioni di ministro.
Divenuto uno degli uomini più potenti d'Italia, Arpinati riferiva ogni giorno a Mussolini, che più volte dimostrò di averne vera soggezione, tanto l'altro lo trattava con franchezza. Mario Missiroli notò che l'assoluta mancanza di adulazione era già un'implicita manifestazione di disaccordo. All'ascesa di Hitler si rivelò subito antinazista. Renzo De Felice lo definisce «un uomo molto retto, spregiudicato legato a Mussolini ma senza piaggeria alcuna, politicamente un puro».
I suoi avversari dentro il regime erano molti e il 3 maggio 1933 Achille Storace, ancora vicesegretario del Pnf, scrisse a Mussolini una lettera dove lo definisce «Stalin del fascismo» che avrebbe meritato «la legnatura o le manette». Il giorno dopo Mussolini lo costrinse alle dimissioni per generici «motivi personali»: gli uomini alla Starace gli servivano più di quelli alla Arpinati. Non solo. Nel 1934 la Commissione per il confino gli infligge cinque anni per presunta contrarietà «alle direttive del Regime». Ne scontò più di due a Lipari prima di ottenere il permesso di tornare nella sua tenuta di Malacappa come sorvegliato speciale: Arpinati non volle mai chiedere perdono a Mussolini, gesto che gli sarebbe valso tutt'altro trattamento: Nanni, confinato già prima dell'amico, scrisse una lettera di supplica al duce e tornò a casa nel '35.
L'8 ottobre 1943 il Duce lo fa prelevare per incontrarlo nella sua Rocca delle Caminate, e esordisce, come niente fosse: «Leandro, sono molti anni che non ci vediamo; ho molte cose da dirti». «Il passato non conta, abbiamo ben altro da discutere», risponde Arpinati. Il Duce gli offre il ministero dell'Interno, ma Arpinati non cede. Quando, in seguito, Mussolini seppe dei suoi rapporti con le forze di Liberazione, commentò: «Arpinati si illude. È nella nostra stessa barca e quando noi andremo a fondo ci andrà anche lui». Leandro infatti era tranquillo, al massimo si aspettava un processo dopo la guerra. Aveva stretto un accordo con i partigiani perché lo lasciassero in pace (benché continuasse a dichiararsi anticomunista), e ospitava nella sua tenuta - dove erano acquartierati i tedeschi - ogni genere di antifascista. Il 21 aprile 1945 il generale tedesco acquartierato a Malacappa disobbedisce all'ordine di resistere a oltranza, per salvare la famiglia che lo ha ospitato, e si ritira. È alle 11 di mattina che arriva un camioncino della protezione antiaerea. Di fronte a Arpinati, Nanni, Giancarla, un'amica e Mario Lolli, segretario dell'ex ras, scendono quattro uomini e due donne. Si saprà dopo che appartengono alla Settima Gap locale di Castelmaggiore, Brigata Garibaldi. «Dov'è Arpinati», chiede uno. «Sono io», risponde senza paura facendo un passo avanti. Un partigiano gli punta il mitra alla fronte. «Dai, ammazzalo», urlano le due partigiane, secondo il ricordo di Giancarla. Secondo un'altra testimone, fu una sola delle donne a gridare invece: «Arpinati ha ucciso mio padre». Nella concitazione che segue Lolli viene gravemente ferito, Nanni ammazzato con un colpo alla nuca (probabilmente il brigatista non sa neppure di uccidere così uno dei più puri antifascisti del ventennio) e Arpinati abbattuto con una raffica sul viso.
L'urlo, non confermato, «Ha ucciso mio padre» accredita la tesi per cui Arpinati sarebbe stato assassinato per il ricordo delle sue imprese di squadrista. Un'altra tesi, più verosimile, è che si temeva un suo possibile ritorno alla politica, come liberale e anticomunista. Sembra propendere per questa tesi anche Brunella Dalla Casa, dopo avere ricostruito nei dettagli sia la vita sia la morte dell'ex gerarca. È l'ipotesi più attendibile, e forse la più scomoda per la storiografia di sinistra, perché in questo caso l'ordine sarebbe partito dai vertici del Pci se non del Cln. Nella famiglia Arpinati non c'è alcun dubbio che questa sia la versione giusta.
I due cadaveri non ebbero sepoltura per cinque giorni. Gli assassini non vennero né identificati né cercati, ma tutti i sospetti - certezze - ricadono su Luigi Borghi, nome di battaglia Ultimo, uno dei più attivi fra i gappisti che insanguinarono il Triangolo rosso.
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