Barthelme, genio "spazzino" di cui non si butta via niente

Adorato dai grandi autori Usa, ma molto poco letto, ora torna in libreria. Era il migliore nell'indagare l'uomo contemporaneo nei suoi recessi più bui

Barthelme, genio "spazzino" di cui non si butta via niente

Tra gli scrittori più influenti (e meno letti) della letteratura americana, Donald Barthelme è stato anche il più imitato. Speriamo che quanto ha scritto Thomas Pynchon nell'introduzione a The Teaching of Don B. (1992) non cada nel dimenticatoio: «Arriverà un giorno in cui tutti i libri di Barthelme si trasformeranno in best-seller». Il momento sembra arrivato perché i tempi sono adatti per riscoprire un autore che ha saputo raccontare la propria contemporaneità, intuendo la frammentarietà del nostro immaginario deformato dai mass-media. Quella di Barthelme, nato a Philadelphia nel 1931 e morto a Houston nel 1989, è stata una critica sociale feroce firmata da uno scrittore, come evidenziato da William Gass, capace di calarsi nel «cuore umano della coscienza umana moderna dell'uomo usando la spazzatura culturale per appiattirla a un singolo livello di verità, importanza, stile e valore». Ammirato da Raymond Carver («Considero Barthelme un eroe»), da David Foster Wallace ( «Il pallone è il racconto che mi ha fatto venire voglia di scrivere»), amatissimo da Thomas Pynchon, ritorna in libreria con Dilettanti (minimum fax, pp. 174, euro 11, traduzione di Martina Testa, introduzione di Christian Raimo), diciannove racconti che tra il grottesco e il surreale svelano il nostro modo di comunicare, di scrivere e ricevere informazioni, svelano la nostra «arte di far tesoro della spazzatura». Alla fine dell'età meccanica, per parafrasare il titolo di uno dei racconti antologizzati, ci troviamo vittime di una «psicologia di massa» che, pur studiandoci, ci ignora. Perché come scrive Barthelme in un altro racconto, Rebecca , «spesso allontaniamo proprio ciò che più di ogni altra cosa vorremmo tenerci stretta». Non è un universo di nostalgia quello di Barthelme perchè «il successo maggiore non è se la storia sembra realistica, ma piuttosto se ci mostra come funziona».

Lo scrittore americano gioca con la cultura di massa tanto da confessare - in un'intervista del 1981 a John Barth-: «Il bello di questa cultura è l'assunto: non hai da perdere tempo nel cercare divagazioni». Potrebbe essere la sintesi poi ereditata dai minimalisti, ma Barthelme non lo era. Perché anche in questi racconti, pubblicati nel 1976 negli Stati Uniti, cerca la digressione dell'umano nei linguaggi più disparati. Ai suoi autori di riferimento (Rabelais, Flaubert, Kakfa, Becket e Nabokov) aggiunge la lezione dell'«Action Painting». I suoi sono i tempi della completa deflagrazione mediatica della «pop art» e Barthelme ci gioca: gioca con i caratteri tipografici, con i disegni, con l'inserimento di corsivi a mano che apparentemente vogliono rifiutare la profondità contrapponendo una visione erotica della superficie.

È lo stesso Barthelme a scrivere: «Su di me è caduto lo sguardo degli oggetti. La forza generatrice è nata, forse, dalla fusione dei loro sguardi. Tra le unità che strisciano a milioni sulla superficie della città, il loro occhio vacillante e desideroso ha scelto per me. La pupilla si è dilatata a far entrare più luce: più me. Hanno iniziato a ballare piccole danze di provocazione e di paura. Queste danze rappresentano l'invito di portata inconfondibile - un invito che, se accettato- conduce lungo molte sponde fangose. Ho accettato. Che alternativa c'era?». Dentro questo passaggio c'è tutta la filosofia di Donald Barthelme. Barthelme ha scritto 8 volumi di racconti (in via di pubblicazione da minimum fax) e 4 romanzi: edito dalla metà degli anni '60 da Bompiani fino alla fine degli anni '70 (con Il padre morto per Einaudi), a parte una breve apparizione nell' Antologia di racconti lampo (Guanda, 1990) era scomparso dalle librerie. È un piacere ritrovarlo con la speranza che i suoi libri, come augurava Pynchon, diventino «best-seller» con buona pace di Gore Vidal che, nei Saggi Letterari (Fazi), considerava Barthelme «un artista nel far tesoro del pattume». Niente in Barthelme è da scartare: persino la sua vita, a dir poco singolare. Figlio di un architetto appassionato di avanguardie artistiche ha vissuto la propria infanzia in una casa diventata un'attrazione turistica. Dopo aver studiato, lavorò al giornale locale di Houston (passando dalle gare acrobatiche di rock'n'roll alle recensioni di film) e nel 1953 venne arruolato per partire in guerra: appena sbarcato in Corea fu firmato l'armistizio. Tornato negli Stati Uniti fondò la rivista Forum (con firme che andavano da Jean-Paul Sartre ad Alain Robbe Grillet e Marshall McLuhan), poi, dopo essere stato direttore dello Houston Contemporary Arts Museum, si trasferì a New York pubblicando il suo primo racconto per il New Yorker . Non vinse mai nessun riconoscimento. A parte il maggior premio letterario americano per la narrativa: il National Book Award.

Paradossalmente gli venne insignito per The Slightly Irregular Fire Engine . Un libro per bambini. Forse è stata la vera vittoria di Barthelme che, in fondo, ci ha sempre considerato dei bambini. Giustamente: perché lo siamo.

Twitter: @gianpaoloserino

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