Per battere l'antipolitica bisogna ridurre lo Stato

L'interventismo crea apparati elefantiaci che hanno come solo risultato la limitazione delle libertà individuali e d'impresa. Risultato? La rivolta

Per battere l'antipolitica bisogna ridurre lo Stato

Viviamo in Italia in tempi di antipolitica, ovvero del discredito molto ampio di tutto ciò che attiene a quell'insieme di persone, enti, associazioni, partiti, corporazioni, strutture e organismi che si occupano degli affari pubblici e che vivono di questa occupazione. E la politica, essendo quella sfera istituzionale che riguarda tutti, interessa tutti. Anche se possiamo dire che questa sua pervasività c'è sempre stata, dobbiamo aggiungere che negli ultimi due secoli essa ha preso uno slancio e una forza prima sconosciuti, come dimostra uno dei maggiori pensatori politici contemporanei, Kenneth Minogue, nella sua Breve introduzione alla politica (IBL, pagg. 202, euro 18).

Minogue ripercorre le principali tappe del pensiero politico dall'antichità ai nostri giorni, sottolineando le fondamentali differenze tra le dottrine greche, romane, medievali, moderne e contemporanee. Ricostruisce anche la riflessione del cristianesimo, che pose in primo piano la vita interiore, sottraendo l'attenzione degli esseri umani dalla conquista del potere e dai beni materiali. La conclusione di Minogue è che tutte le società sono inevitabilmente imperfette e che a questa imperfezione non c'è rimedio, per cui bisogna smettere di pensare che l'intervento politico, qualunque esso sia, possa superare tale condizione insuperabile. Quello che si può fare, ma fino a un certo punto, è scegliere il male minore, al fine di arrecare meno danno possibile alla convivenza civile, mantenendo fermo, però, il presupposto irrinunciabile della libertà dei singoli individui.

Se non che la libertà, proprio a causa dell'invadenza della politica, corre il rischio di una grave mutilazione a seguito dell'avvento della democrazia perché questa, intesa come esercizio di una facoltà universalmente estesa - ovviamente solo nell'Occidente - non è disgiungibile dal dispotismo. Risultato paradossale - ma lo aveva già anticipato Tocqueville - dato che molti, infatti, «hanno accarezzato il sogno di usare il potere incontrastato proprio del dispotismo per eliminare le evidenti imperfezioni del mondo», al fine di rendere «la società più equa e più giusta». Ciò ha comportato la chiamata in causa dello Stato per risolvere i problemi della società civile, in modo particolare il problema del complicato e difficile rapporto tra la libertà e l'uguaglianza, con la conseguenza che, per dar seguito a quest'ultima, si è finito per limitare la libertà personale la quale, per Minogue, è sempre il risultato di una competizione fra gruppi e individui diversi.

Cercare di limitare, o addirittura di annullare, questa continua competizione significa porsi al di fuori della modernità, creando apparati elefantiaci che in tutti i casi non riescono a rimediare alla disparità dei risultati ottenuti dagli stessi gruppi e individui. La spinta egualitaria, in effetti, si traduce in un continuo flusso di proposte legislative e amministrative che fanno appello al potere coercitivo dello Stato per introdurre delle misure che impongano per legge quello che la società tenderebbe spontaneamente a non fare. Rimediare, cioè, all'inevitabile risultato disegualitario della competizione dovuto alla capacita, forza, spregiudicatezza, furbizia, fortuna e altri mille fattori incontrollabili - sempre nuovi e diversi - prodotti dall'infinito e fortunatamente non prevedibile svolgimento della vita.

Così la politica, invece di essere concepita come quell'attività «mediante la quale viene delineata e perpetuata la “cornice” all'interno della quale si svolge la vita umana, ma niente di più», viene vissuta come un'idea e una pratica salvifica a cui si affida la risoluzione di problemi non risolvibili. Viene cioè chiesta al governo un'azione virtuosa, con il risultato effettivo di de-responsabilizzare gli individui e di deprimere una delle grandi conquiste della civiltà liberale, ovvero la civilissima separazione fra la sfera pubblica e la sfera privata perché, di fatto, con l'intento di realizzare la giustizia, vengono aumentati i poteri dello Stato e, aumentando i poteri dello Stato, si allargano a dismisura i confini e la sfera della politica; presupposto, non dimentichiamolo, che ha costituito la premessa basilare del totalitarismo novecentesco: la società civile viene risucchiata dalla società politica.

Uno statalismo continuato, sia pure in forme meno forti e invasive, nel secondo dopoguerra, compendiabile con le parole d'ordine degli anni Settanta fatte proprie dalla sinistra: «il personale è politico», per cui non c'è più nulla che rimanga fuori dalla sfera della sorveglianza collettiva sulle singole persone e la loro libertà privata.

Oggi in Italia la politicizzazione fuori da ogni controllo della magistratura ne è la più mostruosa conferma.

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