Christiane F. confessa: "Io dallo zoo di Berlino non riesco ad uscire"

L'autrice del libro-scandalo degli anni '70 ha deciso di raccontare la sua vita: "Sto morendo di epatite. La mia è una discesa all'inferno"

Christiane F. confessa: "Io dallo zoo di Berlino non riesco ad uscire"

Oggi ha 52 anni, le conseguenze tragiche di un'epatite C che la divora da oltre trenta, giganteschi occhi di ghiaccio e il sorriso dei sopravvissuti. Ha deciso, in collaborazione con una giornalista, Sonja Vukovic - proprio come fece nel 1977 - di pubblicare un'autobiografia, in cui racconta la sua seconda vita, dal titolo Io, Christiane F. (in uscita il 26 febbraio per Rizzoli, traduzione di Chicca Galli, pagg. 300, euro 17), con il cognome puntato, proprio come allora. Chi aveva 14 anni come lei, a quel tempo, non la può dimenticare. E ancor meno la possono dimenticare i genitori di quegli adolescenti. Il libro passava sottobanco come poi sarebbe accaduto soltanto a Tre metri sopra il cielo. Qui però non c'era amore mai: la protagonista era una ragazzina eroinomane che si prostituiva per procurarsi la dose, viveva in condizioni di costante pericolo, per strada, alla mercé di spacciatori e criminali. E soprattutto sembrava non avere futuro. Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino, il diario della tredicenne Christiane Vera Felscherinow, ha segnato più di una generazione, è stato un film culto persino negli Stati Uniti e lettura obbligata in molte scuole tedesche, ha aperto la strada all'autofiction-scandalo (altro che Melissa P.) e aperto gli occhi, anche a chi non voleva vedere, sullo sbando dei giovani europei. Fu un successo senza precedenti, 4 milioni di copie vendute, da cui ricevette 200mila euro a 18 anni per i diritti: un successo che oggi le frutta ancora circa 20mila euro all'anno. La Vukovic l'ha cercata nel 2010 fin sotto casa, ha suonato alla sua porta e ha tenuto duro per quattrocento ore di conversazioni, in cui ha messo ordine cronologico e psicologico. Dal sogno americano, ovvero il trasferimento a Los Angeles dopo il successo del film con la colonna sonora di David Bowie, al periodo svizzero in cui entra nel colto giro di amicizie di un editore di Zurigo, siede alla sinistra di Dürrenmatt e gli dice chiaro in faccia che Il giudice e il suo boia l'ha annoiata a morte: «Perché uno non può dire quello che pensa spontaneamente? Il celebre Dürrenmatt non era abituato a tanta insolenza: si è morso le labbra, si è schiarito la gola e ha rimesso i grandi occhiali sul naso». Però poi con Dürrenmatt ci fa amicizia, lo chiama «papà», per via della chioma bianca, e ascolta per serate intere le sue storie.

Siamo alla fine degli anni Ottanta e Platzspitz, a Zurigo, è il più grande palcoscenico per la droga europea, capace di contenere fino a tremila tossicodipendenti, che passavano lì intere giornate - Christiane ci stava settimane - a bere, farsi, dormire.
Il futuro di Christiane, insomma, c'è stato ed è tutto in questo libro, che pare abbia scritto per avere i fondi necessari a creare una fondazione per aiutare chi ha vissuto il suo stesso dramma: «Fibrosi. A 51 anni, sono allo stadio precedente alla cirrosi. Dal 1989, il mio fegato è costantemente infiammato. Ho un'epatite C, genotipo 1A, il più aggressivo che si possa contrarre in Europa. Non ho alcuna idea di dove e quando l'abbia presa. Sudo di continuo, è insopportabile, sono sempre fradicia, anche a dieci gradi sotto zero. D'estate non posso portare magliette con le maniche corte per via di quelle spaventose macchie rosse sui miei avambracci: si chiamano angiomi stellari». E via con una serie di sintomi atroci che descrivono la quotidianità della donna Christiane e aprono il racconto di una nuova, lunga discesa all'inferno, per fortuna interrotta da alcune importanti risalite, nessuna delle quali, purtroppo, a lieto fine. La più importante di tutte è l'amore per suo figlio, Jan Niklas: nato nel 1996, cresce tra le ricadute continue di sua madre, i ricoveri, due aborti, gli affidi, la disperazione e le voci nella testa dovute alla nomea di «drogata famosa, come una cosa strana da esporre al museo». Nel 2008 le viene definitivamente sottratto e oggi vive con un'altra famiglia perché del padre, che Christiane conobbe in un centro di disintossicazione, non ci sono più tracce da tempo. Lei però spera che a diciotto anni il ragazzo decida di tornare da lei. Perché fare la madre è l'unica cosa che le sia venuta dal cuore oltre alla dipendenza, dice. A chi le chiede di continuo perché non ha mai smesso di drogarsi, Christiane ha risposto per anni che è l'unica cosa che sa fare. E proprio nel capitolo del libro dedicato al figlio, la risposta più straziante si trova in una domanda: «L'idea stessa di cambiare ti manda fuori di testa e ti abbrutisci ancora di più per dimenticare tutta quella merda...

La maggior parte di coloro che non sanno che cosa ho vissuto non ce la possono fare a capirmi. Come può qualcuno cresciuto con la protezione e il sostegno dei propri genitori concepire che io diffidi anche delle persone che amo? So per esperienza che chi mi sta più vicino può infliggermi le ferite peggiori».

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