Così il fascismo ha travolto il debole liberalismo italiano

Il saggio di Vivarelli sugli anni 1918-22 ribalta il luogo comune della storiografia socialista: il movimento del Duce non fu affatto "il braccio armato della borghesia"

Così il fascismo ha travolto il debole liberalismo italiano

Sebbene sia impossibile sintetizzare, con una citazione, l'imponente ricerca storica portata a termine da Roberto Vivarelli con la sua monumentale opera sulla nascita del fascismo, Storia delle origini del fascismo. L'Italia dalla grande guerra alla marcia su Roma (Il Mulino, pagg. 544, euro 36; i primi due volumi sono apparsi rispettivamente nel 1967 e nel 1991), pensiamo di non forzare il suo pensiero se riportiamo questa frase: «Il carattere distintivo del movimento fascista sin dalle origini, non è l'antisocialismo, ma l'antiliberalismo». Giudizio, come si vede, che rovescia la vulgata della storiografia di sinistra secondo cui il movimento politico creato da Benito Mussolini sarebbe stato il braccio armato della borghesia per arrestare l'avanzata del movimento operaio e socialista. Se si analizzano gli anni del primo dopoguerra, si deve constatare che una parte della borghesia (specialmente gli agrari), spinta dalla paura di un possibile avvento della rivoluzione comunista in Italia, appoggiò Mussolini nella convinzione - del tutto errata - che questi, una volta neutralizzato tale pericolo, si sarebbe «costituzionalizzato», accettando lo Stato liberale. Tuttavia il fascismo non può essere ridotto a una semplice reazione antioperaia; certamente fu anche questo, ma soprattutto fu l'espressione italiana di un fenomeno nuovo della storia europea: il totalitarismo, la cui prima formulazione aveva visto la luce con la vittoria bolscevica in Russia. Il socialismo è stato certamente una vittima del fascismo, ma ancor più lo è stato il regime liberale.
Dal lavoro di Vivarelli - la più importante e circostanziata opera storiografica mai realizzata sul quinquennio 1918-1922, basata su ricerche durate oltre mezzo secolo - si evince in modo indubitabile che l'avvento totalitario venne provocato dal logoramento dello Stato liberale, incapace di rinnovarsi. Questa insufficienza spiega la debolezza dei governi del primo dopo guerra - da Nitti a Giolitti, da Bonomi e Facta -, che risultano incapaci di reprimere le crescenti violenze perpetrate da destra e da sinistra; rotture della legalità che hanno avuto il risultato di rendere legittima, agli occhi di un popolo democraticamente immaturo, la sua ripetuta violazione. Di qui una serie di contraccolpi politici, sociali e psicologici intrecciati fra loro: il sentimento patriottico offeso dall'internazionalismo socialista, il terrore dei ricchi per la proprietà pericolante, gli odi della classe media contro gli operai e i contadini, il bisogno diffuso di ordine e sicurezza, il mito della vittoria mutilata, l'isterismo della novità.

Il crollo dello Stato liberale parte dunque da qui, cioè da un disfacimento interno accentuato dagli effetti devastanti prodotti del conflitto bellico. Mussolini non avrebbe mai preso il potere senza l'aiuto, del tutto insperato, della guerra (ma ciò vale anche per Lenin e, più tardi, per Hitler). Questa, incrinando la centralità del sistema monarchico, impedendo una giusta sedimentazione del suffragio universale maschile e, per ultimo, accendendo uno scontro civile fra parti opposte, contribuì in modo decisivo a distruggere il potere dell'oligarchia dominate. La guerra mise in moto il fenomeno profondo, insondabile e incontrollabile della violenza. Su quest'onda il fascismo operò un salto di qualità del tutto sconosciuto rispetto ai precedenti governi liberali perché espresse una concezione radicalmente contraria allo spirito borghese e alla società capitalistica, una concezione della vita e del mondo alternativa al liberalismo individualistico ed edonistico, intrisa del culto dell'azione, della forza, refrattaria alla visione materialistica, all'urbanesimo industriale. Si può dire quindi, complessivamente, che nel Novecento la divisione decisiva non passa tra fascismo, nazismo e comunismo, o tra destra e sinistra, ma tra libertà e non libertà, cioè tra la liberaldemocrazia e i totalitarismi. Un insieme interpretativo, come si vede, che esula dall'analisi di classe propria dell'antifascismo di maniera.
Vivarelli ci mostra anche che il quadriennio 1919-1922 vide morire la democrazia ancor prima di nascere. Dall'Unità fino all'età giolittiana non è possibile riscontrare un vero sviluppo democratico. Lo confermano, sia pure con modalità diverse, Depretis, Crispi e Giolitti, il cui equilibrismo trasformistico non riuscì ad assorbire le spinte provenienti dal basso.

Dopo il 1918 il liberalismo si trova privo di difese perché la vecchia classe dirigente, essendo delegittimata, non ha più la forza e l'autorevolezza per governare, mentre le nuove forze politiche sono, per gran parte, estranee al suo ethos (soprattutto lo sono i socialisti, meno i popolari).


È stato possibile attuare un colpo di Stato perché la stragrande maggioranza degli italiani, pur essendo avversa al movimento dei fasci, era indifferente alla vita e al mantenimento dello Stato liberale. Il crescendo di violenze, iniziato con la spedizione di Fiume, trova il suo approdo nella marcia su Roma. Il fascismo è il risultato logico di questo processo.

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