Oceano era il titolo di un libro che Vittorio G. Rossi scrisse alla fine degli anni Trenta per l'editore Bompiani. Oggi G. Rossi non lo ricorda quasi più nessuno, ed è un peccato; ma allora e sino ancora agli anni Settanta fu un popolare scrittore di mare e di viaggi, tanto che Mondadori creò per lui un'apposita collana. Oceano raccontava la navigazione del mercantile norvegese Galatea, partito da Bergen e diretto all'Avana, e vi cuciva intorno storie di marinai e di guerre, la Prima guerra mondiale, di pesca al merluzzo e di pesca alla balena, riflessioni sulla natura umana, descrizioni di paesaggi, con quello stile scabro che in parte gli era proprio e in parte gli veniva dalla frequentazione della letteratura realista anglo-americana. Il tutto era al servizio dell'entità sovrana e mobile che era l'Atlantico, mare freddo e scuro, affascinante e minaccioso su cui G. Rossi, capitano di lungo corso, si muoveva con attenta naturalezza.
Atlantico (Adelphi, pagg. 482, euro 32) è ora il titolo di un poderoso volume di Simon Winchester, vera e propria biografia sceneggiata sull'onda del Come vi piace shakespeariano, le sette età della vita dalla prima alla seconda e ultima infanzia, quando il bambino e poi lo scolaro, l'amante, il soldato, il giudice e il pensionato divengono infine il vecchio «puro oblio/ senza denti, occhi, gusto, senza niente». Perché anche l'Atlantico ha avuto la sua giovinezza, l'estasi della scoperta e poi della conquista, prima di invecchiare e decadere a una sorta di dépendance casalinga degli affari e degli amori che lascia intravedere un futuro di totale inquinamento, la fine di un ciclo vitale.
Winchester è un reporter inglese molto bravo, già autore di libri similari come per esempio quello sul fiume cinese Yangtze. La sua capacità sta nella raccolta di un'incredibile documentazione, relazioni scientifiche e di viaggio, storiche e geografiche, biografie illustri e meschine, memorie personali, montate poi con intelligenza intorno a un unico soggetto. Nel caso in questione, l'ultramillenaria relazione fra l'Atlantico e gli esseri umani, ovvero l'epopea «del mare interno della civiltà occidentale», un'epopea che ha la maestosità e la terribilità dell'Oceano stesso. Eppure, via via che si legge il suo Atlantico, la nostalgia del più artigianale e modesto Oceano di G. Rossi si fa sentire, come se l'erudizione del primo, per quanto perfettamente padroneggiata, non riuscisse ad avere lo stesso sapore e la stessa immediatezza della vita raccontata e vissuta del secondo.
Un tempo, si sa, c'era l'Oikumene, la terra abitata delle talassocrazie mediterranee: fuori di quel mondo conosciuto, le acque di là dalle colonne d'Ercole erano spaventevoli e irreali. L'Oceano restava un luogo terrificante, le grigie onde e il grigio mare di cui si lamenterà Odisseo. Poi, intorno all'VIII secolo a.C. i fenici, con le loro galliformi «navi tonde», decisero di vedere che cosa ci fosse nell'ignoto... «Multi pertransibunt, et augebitur scientia» c'è scritto sul frontespizio di un libro di Sir Francis Bacon che ha per illustrazione un galeone che si inoltra nello stretto di Gibilterra: Molti vi passeranno attraverso, e la loro conoscenza sarà accresciuta. È sulla soglia dell'Oceano Atlantico, dice Winchester, che diviene sempre più concreta l'idea che «il sapere derivi solo dalla capacità di cogliere rischi e opportunità».
Se per gli europei, con Cristoforo Colombo, conoscere l'Atlantico significò accrescere la conoscenza del pianeta, a partire dal XIX secolo per coloro che ne stavano su lato opposto volle dire essere meglio equipaggiati per trarne profitto. È una generalizzazione, naturalmente, perché fin dall'inizio tra il profitto e la sete di sapere è difficile comprendere quale sia stata, per gli scopritori europei, la molla più forte. Basti pensare che fra la metà del XV secolo e la fine del XIX attraverso quel mare furono portati a ovest undici milioni di africani in catene. Tre milioni viaggiarono su navi britanniche e l'intero ceto dominante inglese partecipò ai dividendi dell'affare, finanziando i negrieri e con essi l'importazione di zucchero, tabacco, rum.
Tuttavia, quella generalizzazione di Winchester rende bene il percorso d'insieme, e soprattutto il cambiamento di rotta che dal 1700 circa spostò l'asse da est a ovest e fece dell'Atlantico qualcosa di diverso da un terreno di conquista del Vecchio Continente. Fino ad allora l'Atlantico è un'immagine europea e basta vedere i dipinti «marini» della grande arte fiamminga, i Bruegel, i van de Velde, per capire come sia nata lì l'arte dell'Atlantico: «Il mare famelico, le sue onde verde chiaro e coronate di bianco, un brulicare di chiatte, gomene e traghetti, le vele di una maestosa nave mercantile olandese che si piegano al vento». Del resto, sempre in tema artistico, la parola «impressionismo» nacque con un quadro atlantico di Monet del 1872 raffigurante l'alba nel porto di Le Havre: Impression, soleil levant, appunto.
Scrive Winchester che la democrazia parlamentare «è stata in primo luogo una creazione atlantica», fondamento quindi di gran parte dello Stato moderno. È l'Islanda del X secolo a mettere le basi per un codice di leggi basate sul consenso popolare, organi assembleari, eccetera. Sarà, e non è qui la sede per un dibattito in materia, ma questa considerazione si presta forse a spiegare il perché quel mercantile di G. Rossi da cui siamo partiti sfidi le onde dell'Oceano in maniera più convincente del transatlantico di Winchester. G. Rossi si muove su una constatazione molto semplice: mentre il Mediterraneo è un mare intensamente popolato, e quindi il suo attraversamento è una storia di porti, incontri, vita, l'Atlantico sta su quella nave che lo attraversa, o altrimenti è una realtà costiera, da un capo all'altro dell'immensa distesa di mare che la separa. L'Atlantico, insomma, è l'imbarcazione che lo naviga, ovvero gli uomini che vi stanno sopra, le loro reazioni, le loro paure, o gioie.
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