I l viaggio è lungo. Inizia quando la scrittura americana si frattura, i lettori impazziscono per gente come Chandler e ai «generi» viene data dignità letteraria. La scuola dei duri diventa quella dei noir di culto e poi dei capolavori western e poi alcuni scrittori scelgono di raccontare la seconda guerra mondiale o il Vietnam e dentro le pagine di genere ci finisce l'America più vera. Vere e proprie scuole non ce ne sono state, se non postume: di che uomini e di che penne era fatta la Beat Generation si è capito dopo averla etichettata. Lo stesso si potrebbe dire oggi per una incommensurabile - per valore letterario, ma anche per numero di autori - vena narrativa americana che raramente arriva da questa parte dell'Oceano: non fa parte del mainstream, non è cocca di marketing, non viene spinta granché dai media, ma scoprirla è trovare oro.
I nomi li ha raccolti insieme per la prima volta una collana nuova che fa parte di un marchio nuovo: «I fuorilegge» di Barney Edizioni, che si propone di stare alla maggior parte della letteratura americana tradotta in Italia come il Sundance Festival sta a Hollywood. Curati, tradotti e, in tutti i casi di autori viventi, conosciuti personalmente da Nicola Manuppelli, sono in lista per l'uscita del 28 gennaio, e per un tour italiano, nomi come Robert Ward (Io sono Red Baker), Jane Urquhart (Sanctuary Line: lei è la canadese che Alice Munro considera la sua unica possibile erede), Lee Maynard (Crum), Chuck Kinder (Lune di miele) e in futuro Ed McClanahan, Max Crawford, James Lee Burke e Owen King, quel figlio di Stephen King che con il primo romanzo ha debuttato nel 2013: Double feature, storia di famiglie disfunzionali e cinema indipendente che di fuorilegge ha davvero tutto, compreso un tragico mostro del sesso.
I fuorilegge della narrativa contemporanea americana sono ricchi - di storie - e vivono nell'ombra rispetto alle copertine di Time. Non cominciano scrivendo racconti per il New Yorker né per altre riviste letterarie troppo cool. Non considerano Wallace un autore di culto, ma un fenomeno transitorio che un giorno sarà pulviscolo nella storia della letteratura rispetto a Stephen King. Non stanno chiusi in cameretta a spulciare le recensioni né fanno birdwatching: agli uccelli semmai sparano e quasi sempre si sporcano comunque le mani perché le storie le raccolgono da terra o in luoghi infidi, lontani anni luce dalle librerie linde e pinte di Manhattan in cui i Franzen fanno i reading. I fuorilegge si conoscono benissimo tra loro, si passano le storie e le autobiografie come in una lista di allegri cospiratori e prima di gettarle in pasto ai lettori le reinventano e le mescolano. Sono tutti bevute e compagnia, come tra scrittori oggi non s'immagina più.
Scelgono temi come la solitudine, l'alcol, il crimine e la morale della favola se la fanno da soli, come i pirati: «Da piccolo il mio libro preferito era L'isola del tesoro. Da grande volevo fare il pirata. Poi quando ho fatto lo scrittore ho scoperto che in fondo era la stessa cosa». Lo dice uno tra i più grandi di loro, Charles «Chuck» Kinder, classe 1942, origine Wild Wonderful West, il ribelle che è stato maestro di Michael Chabon e migliore amico di Raymond Carver, tanto che quando Ray muore smette di scrivere per cinque anni e poi sforna il monumentale Lune di miele: due aspiranti scrittori, Jim Stark (Kinder) e Ralph Crawford (Carver), si scambiano le donne e le frasi dei loro romanzi, divorziano, si ubriacano e, invece di sognarla, vivono la California degli anni Settanta. Perché i fuorilegge hanno il culto della «faction», ovvero fiction più fact, esplosivo mischione in cui scrivono cose che vorrebbero vivere e vivono cose che vorrebbero scrivere e quando non ci riescono cambiano i fatti nell'unico mondo in cui questo è possibile, quello fantastico. In Crum Lee Maynard descrive il suo paese in West Virginia in modo così letale che il libro viene bruciato in piazza, ritirato dal mercato e l'autore bandito. E siamo nel 1988.
I fuorilegge hanno luoghi amati, come il Montana o il Maine, e luoghi di formazione, come la scuola di scrittura creativa di Stanford - da cui sono usciti anche Michael Cunningham, Tobias Wolf o Jeffrey Eugenides. Hanno numi tutelari che li ispirano e li proteggono: dai maestri per tutti come Thoreau e Steinbeck ai maestri di nicchia come il poeta Richard Hugo (quello che ha dato il verso per il titolo de L'ultimo vero bacio di James Crumley, Einaudi), accademico puro che poi si ubriacò e si perse sui monti e si fece trovare, alla faccia di Salinger.
Parlano un gergo da cowboy à la Tarantino, cui un poco assomigliano: «Fatemi girare in una bara: non voglio vedere la luce del giorno» dice Robert Ward a proposito del prossimo tour italiano. E quando muore un amico commentano: «Visto? Ci è proprio rimasto secco».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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