Questo è un inno a Lagioia, vincitore del Premio Strega 2015 con La ferocia (Einaudi), come avevo già annunciato sul Giornale del 4 aprile, quando i candidati erano decine. L'unico a non aspettarsi la vittoria erano lui e Casa Bellonci, l'ospizio della narrativa italiana per casalinghe in menopausa culturale e intellettuali in rigor mortis , che per una volta voleva imporre un candidato suo anziché farlo scegliere dai grandi editori, ossia Elena Ferrante, arrivata terza, mannaggia, e pensare che per lei avevano cambiato perfino le regole. Così i Bellonci sono arrabbiati dando la colpa alla potenza del gruppo Mondadori, ma stavolta il gruppo non c'entra niente, è tutto merito di Lagioia, vi assicuro, e vi spiego perché. Io lo conosco benissimo, Nicola Lagioia, era il mio migliore amico fino al 2001. Seguii personalmente la stesura del suo primo vero romanzo, Occidente per principianti , mi mandava ogni capitolo e io elargivo consigli, e ne venne fuori un bel lavoro, prima di essere stravolto da Paola Gallo, editor dell'Einaudi, per renderlo più vendibile. È ciò che uno scrittore non deve mai fare, piegarsi all'editor, ma è ciò che un autore in carriera deve fare, e già cominciai a insospettirmi. Dieci anni fa gli dissi: «Se continui così finirai al Premio Strega», e all'epoca era un'offesa per entrambi, così i nostri rapporti cominciarono a incrinarsi.
Da lì, nel giro di pochi anni, divenne lui stesso editor della setta di minimum fax, e iniziò a tessere la sua gioiosa ragnatela. Io mi rapportavo a Marcel Proust, a Thomas Bernhard, tra i vivi solo a Aldo Busi, lui si rapportava a Christian Raimo, alla sorella di Raimo, Veronica, lei bellissima e a quei tempi ispiratrice e fidanzata di Lagioia, beato lui, a Elena Stancanelli, a Valeria Parrella, a Francesco Pacifico, e all'intera combriccola dei giovani narratori politicamente corretti e moralisti. Finché presto divenne il miglior amico dell'uomo, soprattutto dei critici: Alfonso Berardinelli, Filippo La Porta, Andrea Cortellessa, Goffredo Fofi, Angelo Guglielmi, partecipando a ogni incontro, presentando di qua e presentando di là, tenendo banco perfino nei TQ, i trentenni-quarantenni che volevano il potere: personalmente ci andai a fare un reportage e sembrava una riunione della Cgil ma per fortuna arrivò la Raimo in minigonna e mi ricordo solo lei.
Io venni additato come un scrittore insopportabile, misantropo e fascista, in dieci anni ho scritto più di seicento stroncature, un vero stronzo, e collaboravo con giornali di destra, Il Domenicale , il Foglio , Libero e poi il Giornale , cosa che in Italia si paga cara. Neppure il mio editore Mondadori ha mai il coraggio di portarmi da qualche parte, né a Torino né a Pordenone né alla fiera della salsiccia, perché chissà poi cosa dico (in effetti hanno ragione) e la Bompiani, quando era il mio editore, voleva farmi firmare un contratto per non scrivere male di Scurati.
Viceversa Lagioia ha scelto sempre gli ambienti giusti per attecchire piano piano come un rampicante: il Manifesto , La Repubblica , poi conduttore di una trasmissione culturale su Radio 3, e presto cooptato per osmosi tra gli Amici della Domenica, cosa difficilissima, considerando che si riproducono per partenogenesi. Il suo j'accuse più coraggioso: accusare Antonio Ricci di fascismo per Striscia la Notizia , un vero partigiano.
Di romanzi in dieci anni ne ha scritti pochi, tre in totale, ciascuno inesorabilmente sforzato nel volontarismo stitico di scriverlo. Tutti uguali, e con le carte in regola per piacere al consesso dei catatonici delle terze pagine: operine molto pugliesi, molto sociali, molto generazionali, molto sentenzianti sul declino dell'Occidente capitalista. Sappiate che la lobby dei pugliesi, nella narrativa italiana, è pari a quella dei sardi e dei napoletani, da oggi ancora più potente, perché il rampicante Lagioia ha sconfitto quel pioppo di Saviano, sponsor della Ferrante. Il succitato Christian Raimo, che sta a Lagioia come Sancho a Don Chisciotte, non si dà pace: se ce la fa Lagioia, perché non io? Dài e dài riuscì anche lui a farsi pubblicare un romanzo per Einaudi, ignorato da chiunque tranne che dal funerario Gad Lerner, di cui era ospite quasi fisso, perfetto, una salma parlante.
In linea di massima le storie di Lagioia sono un lui e una lei, giovani innamorati, un fratello e una sorella, un padre e un figlio, che si barcamenano in un mondo corrotto dal denaro e dal potere. Con frasi del genere, finto pensose: «Era uno splendido pomeriggio fuori stagione dei primi anni Novanta, uno di quegli avanzi che l'estate ripone in uno spazio oltremondano per evitare alla temperatura di salire troppo». Dove apri apri, Lagioia scrive così, un felice mix tra Carolina Invernizio e Nichi Vendola. «Clara impallidì. Poi si accigliò. La forzatura consenti a Pascucci di vederla - l'ombra di una ferita - come avrebbe iniziato a mostrarsi di sua spontanea volontà se solo lui avesse avuto più pazienza. L'estorsione di un anticipo già ridotta a saldo». I bambini non fanno oh, allo Strega i vecchi fanno ah!, e a volte dallo sdilinquimento estetico casca pure qualche dentiera nei brodini.
E quindi inno a Lagioia, perché ce l'ha fatta, e poiché il Premio Strega è la brutta copia di Montecitorio, che è la
brutta copia di qualsiasi altro parlamento europeo, tutto questo è comunque un'arte, non ci sono riuscite neppure due grandi scrittrici come Daria Bignardi e Lilli Gruber, ma manca poco, la meritocrazia in Italia vince sempre.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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