In fondo De André era un ribelle "di regime"

Se De André avesse letto Del Noce avrebbe forse appreso che, con la sua critica continua alla "società borghese", contribuiva a preparare il terreno alla diffusione dello "spirito borghese allo stato puro"

In fondo De André era un ribelle "di regime"

Michele Antonelli è uno che lavora come consulente dei sistemi informativi in mezzo mondo, in particolare è esperto dei Balcani dove ha risieduto durante la locale guerra. Ora si è messo a spulciare la produzione di Fabrizio De André e ne ha fatto un libro, con tanto di dettagliate tabelle comparative, dal titolo esplicito: Il ribelle di regime. La funzione antisociale delle canzoni di De André (Il Cerchio, pp. 210, euro 18).

L'autore non ha tralasciato alcun verso deandreiano, analizzando anche quelli meno conosciuti. De André è stato il più bravo di tutti i cantautori italiani, almeno come paroliere. Secondo Alda Merini è stato il più grande poeta italiano del Ventesimo secolo. Sì, c'è chi è arrivato a metterlo nelle antologie scolastiche e pure nei canti di chiesa, ma questo dimostra solo che il livello dei testi delle canzoni nazionali, banalmente monotematico, è rasoterra rispetto alla produzione estera. Perciò De André spicca. Il cantautore genovese era «anarchico»? Mah, lo si dice per tutti gli artisti dissacranti e nichilisti. Tuttavia, nei brani del suo album sul «bombarolo» lo si trova intento ad accusare il partito comunista di non avere voluto fare la rivoluzione in Italia.

De André si era formato sull'esistenzialismo sartriano (e Sartre, si sa, era un estimatore - a parole - dell'Urss staliniana), di cui esordì come epigono in Italia. Nella sua opera non emerge, va detto, un gran cultura, a parte la frequentazione di poeti à la page come Lee Masters e Prévert. Al di là dell'abilità innegabile come creatore di testi (molti dei quali goliardici, tipo Carlo Martello torna dalla battaglia di Poitiers , scritta insieme al comico Paolo Villaggio, Bocca di rosa , eccetera), la sua filosofia rimane sempre all'interno del politicamente corretto. Anche nell'unica volta in cui si occupò di religione (album La Buona Novella ) andò a documentarsi sui vangeli apocrifi, sdegnando quelli canonici proprio perché tali. Erano infatti gli anni Settanta, nei quali l'esaltazione del proletariato e il pacifismo erano il massimo che ci si potesse attendere dai nostri cantautori meno banali: perfino il Lucio Dalla di Itaca e Piazza Grande . Spopolavano Theodorakis e gli Inti Illimani, nonché le balere romagnole e il liscio (ma solo perché l'Emilia Romagna era la vetrina del partito comunista). Poi subentrarono gli anni «da bere» e il Soldo prese il sopravvento sull'Ideale. Tutti ripiegarono sull'«edonismo reaganiano» (qualunque cosa volesse dire) e l'Impegno a senso unico si afflosciò su se stesso.

Comparve un nuovo Nemico, Berlusconi, ma De Andrè era troppo intelligente per fare i girotondi o indossare maglioni viola. Era ormai «uscito dal gruppo» e i suoi testi divennero sempre più amari e sarcastici. Ma anche più sofisticati e, in parte, profondi. In effetti, rimase unico.

Alcuni suoi versi a effetto sono sempre impressi nell'immaginario di chi ha una certa età; si pensi che una serie di documentari bellici di RaiStoria si intitolava Mille papaveri rossi (da La guerra di Piero ) e Vincenzo Mollica fa intonare dai suoi amici nella sua rubrica di recensioni (sempre Rai) «Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior» (da Via del Campo ). Se De André avesse letto Del Noce avrebbe forse appreso che, con la sua critica continua alla «società borghese», contribuiva a preparare il terreno alla diffusione dello «spirito borghese allo stato puro».

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