Con rispetto e ammirazione ma senza condizionamenti Dario Fertilio si china a ripercorrere la tragedia dei fratelli Cervi: arrestati dai fascisti, nella loro casa colonica, il 25 novembre 1943 e fucilati dopo torture nel poligono di tiro di Reggio Emilia, il 28 dicembre successivo. Vicenda che ha avuto una eco immensa anche perché contrassegnata, come è stato rilevato, da un numero epico e leggendario. Sette i fratelli martiri come i Sette samurai di Akira Kurosawa, come i sette figli di Niobe, come i sette fratelli di Andromaca, come le porte di Tebe. Fu lasciato vivo, oltre alle donne, solo il capostipite Alcide che trascinò il suo immenso dolore fino al 1970.
A questo libro, che s'intitola L'ultima notte dei fratelli Cervi. Un giallo nel triangolo della morte (Marsilio, pagg. 254, euro 17), Fertilio ha voluto dare la qualifica di romanzo. E lo è per la presenza d'un personaggio di fantasia, il partigiano «Archimede», il quale della strage diventa narratore e dei suoi segreti custode. Ma i fatti sono autentici, i dubbi sono angosciosi. Se n'è ben reso conto lo stesso Fertilio, interrogandosi sull'opportunità di riscoprire un mito senza intaccarne l'eroismo ma liberandolo da indebite sovrastrutture ideologiche. «Fino a che punto - la domanda viene da Fertilio - è legittimo imboccare vie differenti, ipotesi suggestive, percorsi alternativi alla narrazione consolidata di un mito?».
Fertilio propone molti interrogativi. Sulla utilizzazione - non voglio scrivere manipolazione - cui il mito fu assoggettato con raffinata abilità dal Pci, sull'ipotesi, di sicuro non campata in aria, che nella notte prima della cattura i Cervi abbiano vagato in cerca d'uno di quei rifugi clandestini che il partito aveva approntato - le cosiddette case di latitanza - e che si siano trovati davanti a porte sbarrate, tanto da tornare, rassegnati, alla loro cascina. Respinti, si suppone, perché troppo indipendenti (addirittura in sentore d'anarchia), e perché riluttanti a spargere sangue.
Intrecciate ai dubbi sono in queste pagine storie di fascisti che diventano cospiratori comunisti, che forse hanno tradito i Cervi, che a guerra finita riuscirono a occupare posizioni importanti nel Pci locale. Diversamente da altri eccidi d'allora, questo riguarda esclusivamente gli italiani. Italiane le vittime, italiani i fucilatori, italiani i delatori. I Cervi - del ceppo emiliano come l'attore Gino, dal ceppo cremonese veniva invece la mia famiglia - furono messi a morte per rappresaglia. Un commando dei gap aveva ucciso un innocuo e inerme gerarchetto, il segretario comunale di Bagnolo Vincenzo Onfiani, e la furia fascista s'era scatenata. L'utilità delle rappresaglie l'aveva spiegata bene uno dei Gap, ad Archimede: «A noi serve, assolutamente serve, colpire il nemico e le sue spie per spingerlo alle rappresaglie. Ma le rappresaglie (obiezione di Archimede, ndr) fanno fuori gli innocenti. Bravo. Loro fanno fuori gli innocenti. E sai che cosa pensa la gente dei fascisti che fanno fuori gli innocenti? Pensa che siano bestie, come infatti sono. E più la gente ci pensa più si allontana da loro. Proprio quello che noi vogliamo. Le rappresaglie sono utili alla causa».
Nelle pagine che precedono il romanzo vero e proprio Dario Fertilio riassume con grande efficacia il percorso che il «mito» dei fratelli Cervi ha compiuto, diventando granitico non unicamente nell'essenza, che granitica è, ma anche nel ruolo del partito. Si capisce quale.
I Cervi erano comunisti. Credevano nel ruolo salvifico dell'Urss, auspicavano - da contadini autodidatti - un futuro in cui quel tipo di mirabile società fosse realizzato anche in Italia. Nello stesso tempo erano buoni cattolici, magari per l'influenza delle donne di casa. Alcide Cervi ha firmato un bellissimo libro di memorie, I miei sette figli, che in realtà fu scritto da Renato Nicolai, scrittore e sceneggiatore, e rivisto da Italo Calvino. Divenne, e lo meritava, un bestseller. Vi erano coniate frasi di raffinata solennità. «L'unico modo per non avere padroni cattivi è non avere padroni». Alla vecchia quercia Alcide furono conferite dalla dirigenza sovietica medaglie per la «guerra patriottica». Un film con Gian Maria Volonté completò la risonanza popolare e culturale del sacrificio dei Cervi.
Nella tragedia Palmiro Togliatti aveva, come si dice volgarmente, inzuppato il pane. I Cervi diventarono simbolo d'una fede che aveva la sua casa madre a Mosca. Ma nella casa madre c'erano stati cambiamenti. Con un procedimento orwelliano in gran voga per l'enciclopedia sovietica le memorie di papà Cervi furono nelle ristampe aggiornate e adeguate al mutare del contesto politico. «Furono eliminati tutti i riferimenti aperti all'Unione Sovietica e all'opera benefica di Stalin, quelli che in prima edizione avevano fatto della cascina Cervi un kolkoz padano. Modificando per pennellate successive il ritratto di famiglia comunista si ottenne un album narrativo più sfumato, democratico, cancellando i riferimenti ideologici filosovietici, moltiplicando le presenze tutelari dei riformisti Andrea Costa e Camillo Prampolini», annota Fertilio.
Il «giallo» di cui al sottotitolo del libro riguarda soprattutto un'ambigua figura, quella di Riccardo Cocconi, oscillante tra fascismo e comunismo.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.