Conciso e concettoso: «Non accettiamo accuse di illegalità da chi è chiaramente illegale». Come presidente della Siae, Gino Paoli seppellisce la farsa del Teatro Valle di Roma, occupato tre anni fa da attori e registi in nome della libertà di espressione e ormai diventato un simbolo della casta al contrario: pretendere tutto e non rispettare nulla. Il solito giochetto coccolato dall'intellighenzia che sa bene come vanno le cose in Italia: è meglio non chiedere il rispetto delle regole per non passare come reazionari o peggio. Così al Valle dal 2011 è anarchia pura. E illegale. E ridicola. Ieri, tanto per dire, hanno organizzato un convegno dal titolo surreale «Tuteliamo gli autori o la Siae?». Detto da loro che non pagano nulla sembra una barzelletta, se di mezzo non ci fossero commissioni insaldate che provocano enormi danni ai creditori, compresi ovviamente anche gli autori delle opere in scena. Un controsenso. Difatti la Siae ha subito replicato con un durissimo comunicato, che Gino Paoli, sempre acuto, commenta così: «Mi ricordano - dice riferendosi agli occupanti - i figli di papà di Valle Giulia che, in nome del popolo, picchiavano i poliziotti, ossia i veri figli del popolo. Pasolini l'aveva notato, tra tante polemiche». A parte il mancato pagamento dei diritti d'autore, spiega Paoli che è da poco presidente della Società Italiana Autori ed Editori, il collettivo del Teatro Valle «gode di vantaggi arroganti perché non rispetta le regole della concorrenza, evade completamente le tasse, non versa i contributi previdenziali Enpals e non rispetta alcuna misura di sicurezza per autori, tecnici e spettatori».
Impossibile smentire. Se si pensa alla coerenza della storia artistica e politica di Gino Paoli, eletto deputato nel 1987 tra le file del Pci senza esserne iscritto (andò nel Gruppo Indipendente di Sinistra), le sue parole sono l'epitaffio di una delle più strumentali e ipocrite violazioni nella storia del teatro italiano. E sono anche uno schiaffo ai silenzi (sempre più imbarazzati) di chi supporta quest'anomalia e non chiede di sanarla. «Chi continua a cavalcare la tigre del populismo difendendo il Valle o non conosce la realtà oppure è in malafede. Quando una cosa è illegale qualcuno dovrebbe intervenire. Perciò mi rivolgo, come presidente Siae, alle istituzioni a partire dai presidenti di Camera e Senato». Un appello che arriva proprio all'indomani della sorprendente esclusione della Siae da un convegno in Senato sulla libertà di informazione. Strana storia, questa del più teatro più antico ancora in attività a Roma, che sembra il canto del cigno di quel frigido movimentismo post sessantottino infettato di utopia. Nel 2011, quando i lavoratori dello spettacolo lo hanno occupato per garantire trasparenza e bilanci pubblici, il Valle ha addirittura preso il Premio Speciale Ubu «per l'esempio di una possibilità nuova di vivere il teatro come bene comune».
Applausoni.
Poi, pian piano, chi davvero come Giorgio Albertazzi non deve rispettare contiguità o aderenze ideologiche, ha cominciato a prendere chiaramente le distanze: «Chi occupa fa anche le regole? No, non mi convince». E dopo di lui anche altri mostri sacri come Pino Quartullo, Armando Pugliese e Marco Lucchesi. Però neanche una risposta dalle autorità. Perciò, nell'indifferenza pressoché generale della cultura italiana, il collettivo del Valle è arrivato a sfiorare la megalomania attaccando pure la Siae che è nata nel 1882 grazie, tra gli altri, a Edmondo De Amicis, Francesco De Sanctis, Giosuè Carducci e Giuseppe Verdi ed è legittimata dalla legge sul diritto d'autore del 1941. Con tutte le pecche e i limiti del caso, come spiega Paoli, «alla Siae aderiscono oltre centomila autori ed editori che pagano le tasse e da 131 anni alimentano la cultura». È arrabbiato come raramente si arrabbia.
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