Il primo europeo ad entrarci, a metà Ottocento, era stato un esploratore inglese, travestito da arabo. Richard Burton era il suo nome, Ruffian Dick, Dick la canaglia, il soprannome, un incrocio fra «un monaco benedettino, un crociato e un pirata» è il ritratto che di lui lasciò chi lo aveva conosciuto. Harar, «la città proibita», era, allora come ora, circondata da mura e sei erano le porte d'ingresso. Burton entrò da quella di Erer dove, anche qui allora come ora, c'è il mercato del chat, la foglia euforizzante che è il passatempo nazionale. Nel suo First Footsteps in Africa scrisse che il proverbio somalo «duro come il cuore di Harar» era giustificato, così come l'immagine di un «paradiso popolato di asini». I suoi abitanti erano fisicamente segnati dalle malattie e dal vizio, l'emiro che li governava era sospettoso e crudele, la tratta degli schiavi il commercio più praticato. Posta al centro dell'Etiopia cristiana, trent'anni dopo l'ingresso di Burton, l'imperatore Menelik la annetté alla sua corona, ma le lasciò le sue 82 piccole moschee, i santuari, le tombe e il cimitero islamico, un concentrato di Islam che nei suoi 368 vicoli sapeva più di Marocco che di Africa nera. Arthur Rimbaud, che vi si era installato come trafficante d'armi e di caffè, fece in tempo a vedere il prima e il dopo, l'emirato e il nuovo governatorato cristiano di Ras Makonnen, il padre di quello che poi sarebbe stato il successore di Menelik con il nome di Hailé Selassié, ma trovò che nel cambio di potere non era cambiato nulla. Quanto a lui, trascinava «un'esistenza desolata sotto climi assurdi e condizioni insensate. È un vero incubo. Sto per compiere trent'anni (la metà della vita) e mi sono stancato a girare il mondo senza risultato».
La casa-museo che oggi lo ricorda, in realtà fu costruita che lui era già morto, proprietà di un ricco commerciante indiano di avorio e spezie. Quello che oggi si chiama Seged Hôtel, sulla Feres Magala, l'antico mercato dei cavalli, ed è l'unico albergo della città vecchia, probabilmente era la sede dei magazzini Bardey, dal nome del suo datore di lavoro, anche se c'è chi sostiene che sia un altro edifico diroccato, non molto distante, a essere quello vero. Il mistero intorno ai luoghi esatti è, da un secolo ormai, una delle attrazioni del cosiddetto «turismo colto», specialmente francese. L'altra è «l'uomo delle iene», una tradizione che invece non ha più di cinquant'anni e che, fuori dalle porte Fallana e Sanga, vede gli animali prendere il cibo praticamente dalla bocca del loro «domatore». C'è chi lo trova istruttivo, chi affascinante.
Città-Stato e città santa all'interno della Repubblica federale d'Etiopia, «patrimonio dell'umanità» per l'Unesco, Harar è un buon punto di partenza per capire che cosa sia l'Etiopia oggi. Ancora all'inizio del Novecento, Harar era un centro di commercio importante, a metà strada fra la capitale Addis Abeba e lo sbocco a mare rappresentato da Gibuti. La costruzione della ferrovia prima, dell'aeroporto poi, le fecero perdere il suo primato a favore della vicina Dire Dawa, lo «sviluppismo», la nuova parola d'ordine della attuale politica nazionale, fatica a trovare una logica in una realtà agricolo-commerciale la cui economia sa più di sopravvivenza che di moderna produttività.
«Terra dei visi bruciati», secondo gli antichi greci, regno favoloso del Prete Gianni, secondo l'immagine medievale, dove i palazzi erano di cristallo e le vesti del re, tessute da salamandre abitanti su una montagna di fuoco, erano d'oro, l'Etiopia rimane sino alla fine del Settecento un luogo incantato in quanto pressoché sconosciuto, dove tutto è possibile non essendo verificabile: una dinastia plurisecolare, che faceva capo a una regina mitica, la regina di Saba, e al re Salomone, una religione altra, quella cristiano-ortodossa, rispetto al continente in cui era immersa. «Circondati da ogni parte dai nemici della loro fede» scriverà il Gibbon di Declino e caduta dell'impero romano, «gli etiopi vivevano in un sonno quasi millenario, dimentichi del mondo e dimenticati da esso». Quando, nella seconda metà dell'Ottocento, un'Italia da poco unita e ultima arrivata nella corsa alle colonie, pensò di andarli a risvegliare, fu la catastrofe di Adua, pagina nera della storia nazionale e insieme però l'ingresso dell'Etiopia nel nuovo secolo come unica potenza coloniale di colore, impero costruito per successive annessioni e di cui nel 1930 Hailé Selassié, «il prescelto da Dio», diverrà sovrano assoluto. Per la sua incoronazione arriveranno diplomatici e giornalisti da tutta Europa e da oltre oceano, ma, come ricorderà Evelyn Waugh, per gran parte di essi «l'Abissinia è una sorta di assurda Alice nel Paese delle Meraviglie», dove i principi mangiano con la bombetta in testa, la Chiesa consacra i suoi vescovi sputando sulle loro teste e Ponzio Pilato che, fino a prova contraria, del Cristo si lavò le mani, è venerato come un santo...
Dal Duemila le spoglie di Hailé Selassié riposano nella cattedrale della Santissima Trinità di Addis Abeba. Dopo il colpo di stato che nel 1974 pose fine al suo regno e a una millenaria dinastia, lo portarono via sul sedile posteriore di una utilitaria, lo soffocarono da prigioniero con un cuscino e poi ne seppellirono il cadavere in una latrina fuori dal palazzo imperiale. Quando il nuovo regime a sua volta cadde, i resti furono recuperati e traslati nel mausoleo di Menelik, dove rimasero appunto sino alla successiva e finale collocazione.
Il giudizio storico su di lui è controverso, ma ferma restando la realtà di una personalità d'eccezione, va detto che il disastro economico e sociale che portò alla sua caduta era anche il figlio della miopia ideologica e del senso di colpa di un Occidente che, avendolo illuso al tempo della vittoriosa e fascista guerra di Etiopia, aveva in seguito deciso di considerarlo come un autocrate sì, ma illuminato, democratico e progressista, un campione della sinistra e dei diseredati. Ci vollero le spaventose immagini televisive della carestia dei primi anni Settanta, negate dal potere imperiale, ma frutto del combinato disposto di iniquità feudale, corruzione, incapacità politica, per accettare l'idea che l'abortita insurrezione militare di dieci anni prima fosse qualcosa di più e di diverso di una semplice faida di potere: era l'impero che franava, l'anacronismo di un re per diritto divino, sacro e intoccabile.
Quello che è venuto in seguito, lo si può plasticamente vedere nel museo cittadino del Terrore rosso, il racconto della piccola Cambogia che fu l'Etiopia socialista del Derg (Comitato) di Mengistu, un ventennio di repressioni sanguinose, nazionalizzazioni, deportazioni forzate di intere popolazioni, guerre civili e campagne militari, carestie non più negate, ma cinicamente esibite per meglio lucrare sull'aiuto internazionale...
Novanta milioni di abitanti, un territorio quattro volte l'Italia, l'Etiopia del Duemila è una repubblica federale che insegue un suo modello cinese di sviluppo, avendo del resto la Cina come partner economico privilegiato. Lo stesso partito al potere da anni, il Fdr, Fronte democratico rivoluzionario, un leader, Meles Zenawi, a cui solo la morte ha tolto la leadership, un successore, Hailemariam Desalegn, che sembra intenzionato a proseguirne l'opera: dirigismo politico, controllo statale delle telecomunicazioni, libertà economica, poco o niente spazio all'opposizione. Le Kebele, una sorta di unità territoriali di quartiere, controllate dal Fdr, garantiscono la sorveglianza della società civile, un esercito di 150mila uomini assicura la sicurezza interna e estera... Addis Abeba è una capitale senza capo né coda, condannata alla verticalizzazione architettonica per la sua realtà geografica, dove la popolazione esplode, quattro milioni di abitanti, un'urbanizzazione in cui convivono baracche di lamiera e un centinaio di ambasciate. Dopo New York e Ginevra, è la terza città al mondo per numero di diplomatici, sede dell'Unione africana, della Commissione per l'Africa, di decine di Ong. Anche qui, l'unicità della sua storia fa da garanzia e da salvacondotto per un ruolo superiore a quella che è la sua realtà effettiva.
Nei giorni scorsi, una polemica con l'Arabia Saudita, colpevole di maltrattamenti fisici e vessazioni morali nei confronti della manodopera etiope, ha rivelato la miseria di un'emigrazione su cui il governo preferisce glissare: non può essere usata come speculazione politica, ha fatto sapere il ministero degli Esteri. Il risveglio dal sonno millenario non è stato, e non è, esente da incubi.(1. Continua)
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