«Cerco, ma ammetto di non riuscirci, di comprendere le motivazioni del suo diniego, poiché... molti dei suoi, direi nostri compagni - perché sono anch'io, e da cinquant'anni, socialdemocratico - non condividono i suoi scrupoli
». È uno stupito François Fejtö quello che il 20 giugno 1988, in veste di rappresentante della Lega ungherese dei diritti dell'uomo, scrive al presidente del gruppo socialista al Parlamento europeo, il tedesco dell'SPD Rudi Arndt. Pochi giorni prima, il 16 giugno, Fejtö - indimenticato collaboratore di questo giornale e grande storico delle democrazie popolari - aveva organizzato al cimitero parigino Père-Lachaise una cerimonia in ricordo di Imre Nagy, il leader della rivoluzione del 1956 impiccato trent'anni prima dal regime di János Kádár dopo un processo-farsa.
Ma nell'organizzazione della cerimonia qualcosa era andato storto. Di fronte alla simbolica tomba vuota (il regime ungherese rifiutava di rivelare dov'era stato sepolto l'ex primo ministro) c'erano la figlia di Nagy, Erzsébet, il presidente portoghese Mario Soares e, per i socialisti francesi, Robert Pontillon. La delegazione italiana era formata da Claudio Martelli in rappresentanza del PSI e Piero Fassino per il PCI, unico esponente di un partito comunista ad aver accettato l'invito. E Fassino era arrivato sfidando le ire di Giancarlo Pajetta, portavoce di quella vecchia guardia che ancora considerava Nagy un traditore. Giscard d'Estaing, Ronald Reagan, Jimmy Carter e Margaret Thatcher avevano inviato messaggi di solidarietà.
Ma pesavano alcune illustri assenze. Federigo Argentieri, docente alla John Cabot University e direttore del Guarini Institute for Public Affairs, ha recentemente portato alla luce dall'archivio Fejtö, conservato nella fondazione József Károlyi di Fehérvárcsurgó in Ungheria, un carteggio relativo a quell'iniziativa. Da cui emerge, tra sospette distrazioni, più o meno garbati dinieghi e improbabili soluzioni di ripiego, il tradimento della memoria di Nagy da parte dei mostri sacri della socialdemocrazia tedesca. Il tutto in nome di un'arrendevole miscela di Real-Ostpolitik che rischiava di rafforzare invece che indebolire il sistema sovietico.
Scopriamo così che Willy Brandt prima smarrì la lettera d'invito di Fejtö, quindi rispose (con diplomatico ritardo) di non voler aderire al comitato organizzatore in prima persona ma tramite un suo oscuro emissario. Helmut Schmidt se la cavò con poche righe: le richieste di comitati e associazioni erano così assillanti da indurlo a rifiutare qualsiasi proposta. Ma fu il presidente dei socialisti europei a mandare Fejtö su tutte le furie. Arndt, noto a Strasburgo per le sue iniziative ambientaliste e antifasciste, non ritenne opportuno partecipare perché occorreva tutelare - scrive nella lettera che suscitò la risposta di Fejtö qui riprodotta - il cauto riformismo avviato nei Paesi d'oltrecortina, che aveva fruttato recenti e positivi contatti interparlamentari con Budapest e da cui ci si aspettava un impulso alla democratizzazione.
Una posizione, la sua, solo apparentemente moderata. Che Fejtö smascherò con una replica che è un piccolo capolavoro epistolare. Bizzarra: solo così può definirsi, scrive, la scelta di privilegiare i contatti con «gente» che pratica dubbie liberalizzazioni ma reprime con forza le manifestazioni per la libertà. Tanto più, aggiunge, che il governo ungherese non ha mostrato difficoltà a incontrare leader occidentali solidali con l'opposizione democratica.
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