Ecco, adesso che ci siamo giocati anche Raffaele La Capria, 91 anni, e visto che nel prossimo inverno Alberto Arbasino e Pietro Citati di anni ne compiranno 84, si sbrighino i vari... i vari... (porca miseria, in questo momento non ci sovvengono i loro nomi e cognomi!) a invecchiare. Non fosse altro che per prendere, fra almeno quaranta o cinquant'anni, beninteso, i loro posti nell'olimpo dei Maggiori Scrittori Italiani Viventi.
Oberato da Novant'anni d'impazienza e soprattutto da Umori e malumori (che coincidenza, sono i titoli dei suoi ultimi lavori), soltanto La Capria, per ora, ha fatto il grande passo. Ma se noi lettori non ci decideremo a premiare la qualità, invece di far diventare bestseller, come dice La Capria in una «lettera al lettore italiano» pubblicata ieri dal Foglio, «certi libri che basta leggerne due righe per capire che non valgono niente», stiamo certi che Arbasino e Citati seguiranno presto il suo esempio, appendendo la penna al chiodo. L'autore napoletano sbotta: «Sai che ti dico? A novant'anni mi ritiro, non vale la pena, il mio diventa un mestiere stupido con lettori come te. Non ti sei accorto come sono belli e interessanti i 20 libri che ho scritto in questi novant'anni, perciò ho deciso - un po' tardi, lo so - che non scriverò più».
Non essendo La Capria uno scrittorucolo qualsiasi, per chiosare il suo sfogo non ci permetteremmo mai di parafrasare così il celebre interrogativo di Nanni Moretti in Ecce Bombo: «Mi si nota di più se scrivo e me ne sto in disparte o se non scrivo per niente?». Non essendo La Capria il «caso editoriale» dell'anno (o del mese, o della settimana), mai oseremmo considerare la sua amara riflessione come un'autopromozione. Se La Capria, che è La Capria, dice quelle cose di noi, meschini acquirenti di cianfrusaglie editoriali, la colpa è nostra e soltanto nostra. È anche colpa degli editori? La Capria non lo dice. Degli editori proprio non parla. Cita soltanto, per dovere di cronaca, quelli dei suddetti suoi ultimi libri.
E soprattutto che non gli venga in mente, per carità, di rifugiarsi all'estero come medita di fare il suo collega (non s'offenda, don Raffaè) Roberto Saviano. Non ce lo perdoneremmo mai.
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