"Io sparo al Bene ma salvo il lusso e la gioia di vivere"

L'eroina del nuovo romanzo è una rapinatrice che snobba la ricchezza di benpensanti e borghesi. In questo assomiglia all'autore...

"Io sparo al Bene ma salvo il lusso e la gioia di vivere"

nostro inviato a Torino

Primitivo e raffinato, sangue caldo da mammifero e testa fredda da rettile, Aurelio Picca è stato il primo della sua generazione, nata sull'ultimo lembo vulcanico dei Colli Albani alla fine degli anni Cinquanta, a impennare in motorino. Un ninja in Kawasaki, e andava sempre fuori misura. In moto, nella vita e in letteratura. Andando in analisi, pur non credendo alla psicoanalisi, a causa di una depressione, male che per lui non esiste, dopo la morte della madre. «Per due motivi: per sublimare una forma di corteggiamento verso la mia psicoanalista, e perché questi incontri erano carichi di gioia: la cura non era fare l'amore con lei, ma fare l'analisi, che era la stessa cosa perché alla fine della seduta era come avessimo fatto l'amore. Ne uscivamo entrambi soddisfatti». Ma questo, con la gioia del suo nuovo romanzo che presenta oggi al Salone di Torino, Un giorno di gioia (Bompiani), non c'entra.

Forse c'entra il Bene, però cos'è il Bene?
«Il bene non so cosa sia, io semmai so cosa sono la passione e la generosità. Il bene fa parte delle cose facili della vita, come dare la mancia al cameriere o regalare un euro all'extracomunitario. Cose che sanno fare tutti. Le cose difficili sono altre. Mio nonno, un repubblicano severissimo, e mia madre, una cristiana delle origini, mi hanno allevato a cose estreme: la generosità nei confronti degli altri e la passione per la vita. Questo è difficile. Alle persone che per me sono importanti, io non voglio bene. Io a loro mi appassiono, per loro mi consumo».

E alla Letteratura, cosa fa bene?
«Le stesse cose: alla letteratura serve generosità e passione. Io sono stato educato non alle illusioni, ma alle ambizioni. E così la letteratura. Che non deve incamminarsi sulle illusioni del facile successo, del consenso di massa, della scontata attualità. Ma deve essere passionale, prima di tutto verso la grande tradizione della nostra lingua, che è una ricchezza immensa, e deve lavorare sempre per una grande ambizione. Lo insegna Albert Camus quando dice che non bisogna scrivere i libri che si desidera scrivere, ma quelli che serve scrivere. Ecco: la letteratura italiana oggi è carica di facili illusioni, senza alcuna vera ambizione».

L'illusione è come il Bene: troppo facile.
«È così. Io col mondo non ho rapporti di potere, ma sentimentali: di passione, di ambizione, di amore per le persone che mi circondano e per il lavoro che porto avanti. Cose ben più difficili che fare il bene».

E la gioia che sta al centro del tuo libro?
«La gioia è questo: riuscire a scrivere un libro estremo. E cosa significa scrivere un libro estremo? Costruire attorno alla trama, al “genere” narrativo e alla vita interiore dei personaggi - una madre rapinatrice e il suo bambino in un romanzo d'azione ambientato negli anni Cinquanta - una struttura narrativa “estrema” che tenga dentro tutto: la visione, il cinema, il sogno e la realtà quotidiana. E che tenga dentro soprattutto il lusso».

Il lusso?
«La madre, protagonista del romanzo, dice “La ricchezza è per benpensanti e per borghesi, io preferisco il lusso”. E anch'io: alla ricchezza preferisco il lusso, come al bene preferisco la gioia: qualcosa che oggi si ha, domani si può perdere. Voglio dire che alla Letteratura io chiedo atteggiamenti fuori dalla norma e dalle consuetudini. Paul Bowles si chiedeva: “Quante cose ricorderemo alla fine della vita? Quante albe, quante persone tra tutte quelle che abbiamo visto rimarranno nella nostra memoria? Due o tre al massimo”. Ecco. La Letteratura non è fatta dalla facile routine, ma da quei due o tre momenti estremi di gioia e di lusso della nostra esistenza: quei momenti diventano il mio romanzo. Coco Chanel diceva che tutti credono che il lusso sia l'opposto della povertà. No: lo è della volgarità. La Letteratura è quando tutto sulla pagina è estremo, perfetto, in ordine. Sono i momenti di gioia, dove niente è volgare».

La stessa cosa per la scrittura.
«Sì, anche la scrittura dev'essere lusso e gioia: qualcosa di perfetto, controllato, appassionato, ricercato, lontano dalla routine. Io, nei miei libri, tiro la lingua italiana all'estremo, usandola dal lusso al kitsch, sintetizzo tutti i linguaggi: noir, memoires, cinema, giornalismo, poesia. In questo sono malapartiano: sfruttando tutte le potenzialità di ogni lingua, non faccio capire cos'è vero e cos'è falso. Come Malaparte in Kaputt. E come ci arrivi a questo? Lavorando, come dicevano gli antichi artigiani italiani, facendo le cose con passione e con i materiali più lussuosi. Facendo le cose a regola d'arte».

Cosa fa bene al libro?
«Io lo so. Ho insegnato per anni Italiano alle superiori. E nel 1995 ho scritto il romanzo L'esame di maturità. Gli studenti li conquisti solo con la passione, facendo leggere a voce alta direttamente gli autori, subito, senza sovrastrutture, facendo parlare i ragazzi con il testo e parlando, tu professore, degli scrittori che si leggono in classe come persone vive, mentre i ragazzi pensano siano nati già morti. Bisogna far vedere che quegli autori quando scrivevano erano vivi: amavano, odiavano, lottavano, andavano in moto, baravano a carte, facevano le cose che facciamo tutti noi. Al libro serve una scuola dove si leggano le pagine e si raccontino le vite dei Parise, dei Bianciardi, dei Comisso, dei Piovene».

E la tv?
«Deve fare la stessa cosa. Non parlare di libri, ma leggere i libri. E far vedere che gli scrittori sono persone vive».

Come chi?
«Come Picca».

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