L'arte di Cartier-Bresson? Trovata senza cercarla...

Respinto dal mondo della pittura e da quello del cinema, si dedicò agli scatti d'autore per piacere, non per farne un lavoro. La storia di uno sguardo inquieto e libero

L'arte di Cartier-Bresson? Trovata senza cercarla...

«Un lupo solitario, vagamente fanatico» era stata la descrizione che un giovanissimo Truman Capote aveva dato di Henri Cartier-Bresson, suo compagno di viaggio in un tour americano per un reportage di scrittura e di immagini. «Danzava lungo il marciapiede come una libellula, la Leica sembrava parte integrante del suo corpo». Nato nel 1908, Bresson non aveva ancora quarant'anni e al MoMA di New York, il Museo dell'Arte Moderna, gli avevano appena dedicato una retrospettiva. Una sera al Dixieland, un club di jazz molto in voga, il clarinettista del Dukes l'aveva indicato al batterista della band: «Lo vedi quel tipo che si muove per la sala come un gatto? È per la fotografia quello che Louis Armstrong è per noi».

Eppure, e sino a tutti gli anni Trenta, per Henri Cartier-Bresson la fotografia non era mai stata l'unica certezza. Fondamentalmente, era un uomo in fuga, oppure un uomo alla ricerca di se stesso, che è poi la stessa cosa. Era scappato dalla religione dei suoi antenati, dagli studi annunciati, dalla fabbrica del padre, dalle case di famiglia. Più tardi sarebbe scappato dal campo di concentramento, dal peso della notorietà, dalla fotografia stessa...

Figlio di un industriale di filati, con tanto di castello in campagna e appartamento nella Parigi super chic del Parc Monceau, fin da ragazzo aveva avuto il complesso della ricchezza e i fastidi verso i doveri sociali. «Un uomo utile è un uomo odioso» diceva Baudelaire, e per il giovane Henri l'autore dei Fiori del male era la Bibbia. Così, il suo orizzonte era stato quello dell'arte, il disegno, la pittura, la frequentazione degli ateliers e dei maestri, dell'Académie Lhote di rue d'Odessa, a Montparnasse. Suo mentore è Jacques-Emile Blanche, il ritrattista per eccellenza degli scrittori e dei pittori. È lui a portarlo nell'appartamento di Gertrude Stein in rue Fleurus, il salotto cultural mondano dove si passa al vaglio l'arte moderna, da Hemingway a Picasso. «Giovanotto, farebbe meglio a occuparsi degli affari di famiglia» è, a vent'anni, il responso spietato che ne riceve. Dieci anni dopo, quando è al suo terzo film come assistente di Jean Renoir, sarà quest'ultimo a togliergli ogni illusione cinematografica: «Amico caro, mancate totalmente di immaginazione».

Fra quei due «no» così perentori, c'è però un decennio tanto fecondo quanto disordinato, in cui fuggendo per cercarsi Henri non è mai rimasto nello stesso posto. Se n'è andato per un anno in Costa d'Avorio, con in tasca mille franchi, le poesie di Rimbaud, l' Anthologie nègre di Cendrars e I canti di Maldoror di Lautréamont. È lì che ha iniziato a fotografare e che ha rischiato di morire. Bilharzia è la diagnosi e nello scrivere a casa le sue ultime volontà chiede una sepoltura in mezzo ai faggi di famiglia, con il quartetto d'archi di Debussy quale accompagnamento musicale. «Tuo nonno pensa sia troppo costoso. Preferibile che rientri tu» è la risposta. Come la Stein prima e Renoir dopo, nemmeno gli intimi lo prendono sul serio.

Sopravvissuto all'Africa, ha poi scorrazzato per l'Europa, quella dell'Est, quella mediterranea. La Spagna e l'Italia lo affascinano, luoghi surrealisti per eccellenza e quindi perfetti per chi, come lui, vede nel surrealismo una religione di vita, una pratica esistenziale. È grazie al movimento di Breton che pochi anni dopo approderà a Ce Soir , il quotidiano popolare e paracomunista di Aragon, dove firma le foto come Henri Cartier, semplicemente, sempre in fuga dal quel doppio cognome borghese e capitalista che lo agghiaccia. Prima però c'è stato il tempo per un lungo soggiorno in Messico, un altro anno vissuto pericolosamente, e negli Stati Uniti, per il matrimonio con un'indonesiana.

Paradossalmente, Henri è un antiviaggiatore, nel senso che non viaggia in senso classico, «si sposta, si sistema, pianta le tende e si fa dimenticare», come scrive Pierre Assouline nella sua bellissima biografia che ora Contrasto manda nelle librerie ( Henri Cartier-Bresson. Storia di uno sguardo , pagg. 398, euro 24,90). È, il suo, una sorta di stato di grazia che nasce dalla disponibilità: spiare in ogni istante l'arrivo della sorpresa, ma non aspettarla mai. Rimanere sempre ricettivo, spiega ancora Assouline, avere come unico appuntamento quello con il Caso, che però appuntamenti non ne dà mai.

In quel decennio contrassegnato all'inizio e alla fine da quei due rifiuti così perentori, Cartier-Bresson trova la fotografia senza averla cercata, la trasforma in un mestiere non vedendola come un lavoro, fa parte della sua quotidianità come fosse una seconda pelle, ma proprio perché la sente tale vuole che sia un piacere e non un dovere. Perché alla fine accetti il suo destino ci vorrà la Seconda guerra mondiale, tre anni di prigionia in uno stalag tedesco, due tentate evasioni prima della terza, riuscita, che lo riporta in patria, la fondazione dell'agenzia Magnum nel 1946 con cui la fuga anche da Baudelaire è definitivamente sancita: da «serva della pittura», rifugio di quei pittori «troppo scarsamente dotati o troppo pigri per terminare gli studi» a unico strumento per vivere intensamente.

Il resto, ma solo per un altro ventennio, è la storia di uno sguardo, appunto, l'occhio del secolo come diranno

gli ammiratori, l'istante decisivo da saper conoscere e cogliere. «Il tempo corre e scorre, e solo la nostra morte riesce ad afferrarlo. La fotografia è una mannaia che coglie, nell'eternità, l'istante che l'ha abbagliata».

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