L'Unità muore, e l'assassino ha un nome: è Repubblica

Con agosto cessa le pubblicazioni il quotidiano "fondato da Antonio Gramsci": una agonia durata più di vent'anni, iniziata quando Scalfari decise di portargli via lettori e giornalisti

L'Unità muore, e l'assassino ha un nome: è Repubblica

Una volta tanto, il delitto ha un colpevole. Se l'Unità, già organo del Partito Comunista Italiano, smetterà di esistere tra due giorni, sarà un po' colpa della crisi della stampa, dei giornali che non sanno che pesci pigliare nella rivoluzione di Internet, dei ragazzi di oggi che leggono poco e male. Ma se la chiusura spazza via (almeno per ora) il quotidiano fondato da Antonio Gramsci, la colpa è soprattutto, inequivocabilmente, di un signore con nome e cognome. Eugenio Scalfari, fondatore e per lunghi anni direttore di Repubblica. Che, dopo un avvio incerto della sua creatura (basterebbe guardarsi l'improbabile grafica dei primi numeri, ibridi tra il Mondo e Le Monde, nessuna foto, articoli chilometrici: insomma, una mattonata che infatti leggevano in pochi) ebbe una intuizione geniale. Capì che i milioni di italiani che votavano a sinistra - non i liberali, non i radicali alla Pannunzio, riferimento culturale della Repubblica degli esordi - erano un gigantesco terreno di caccia, una prateria di lettori, e spesso lettori accaniti, pronta al salto di qualità. Un ceto sociale e politico che era stato in parte sedotto dal primo Giorno, ma che per la maggioranza era rimasto fedele all'Unità: ma che sempre meno era pronto a riconoscersi in quella inevitabile e un po' greve ortodossia di fondo che permeava l'organo ufficiale del partito. Quei lettori volevano un giornale che li coccolasse, li seducesse, ne confortasse le certezze politiche, ma che avesse anche quel po' di irriverenza, di sregolatezza, di curiosità, reso inevitabile dai nuovi tempi. Repubblica, decise Scalfari, sarebbe stata la nuova casa di quei lettori. L'Unità iniziò a morire quel giorno.
Non fu un percorso facile. Dentro l'anima di Repubblica c'erano componenti che faticavano a riconoscersi nel nuovo corso. Giorgio Forattini, innanzitutto, che con una sua vignetta epocale scatenò le ire di Enrico Berlinguer: ma non solo. Anche altri storcevano il naso davanti a quel vistoso, quasi plateale, cambio di linea. Ma il successo dell'assalto scalfariano alle praterie dei lettori comunisti fu talmente clamoroso da azzittire i dissensi interni. All'italiano che votava a sinistra, Scalfari offriva un prodotto ultramoderno, a volte postmoderno nella sua concezione dell'informazione. La colossale campagna di marketing di Portfolio, gioco di Repubblica collegato alle quotazioni di borsa, segnò lo scavallamento di un confine atavico: il diavolo del mercato seduceva i militanti comunisti sotto forma di una schedina. Grandioso. I tempi erano maturi, e l'emorraggia di lettori fu poderosa quanto una piena del Seveso.
Sotto quei colpi, l'Unità faticò a reagire. L'unico che riuscì ad accennare una qualche forma di riscossa fu, va detto, Walter Veltroni, che inaugurò la stagione delle videocassette allegate al quotidiano: roba che oggi, in epoca di streaming e di cloud, sembra appartenere ad un'altra epoca, e che invece è roba dell'altroieri. Le cassette di Veltroni diedero l'ultimo colpo di ossigeno all'Unità. Ma non risolse il nodo cruciale: come fronteggiare quel nemico sorto così in fretta, dentro il proprio campo? Seguirlo, imitarlo, rubarne i segreti e gli spiriti innovativi? O combatterlo a faccia aperta, fieri della propria identità e diversità?
Per scegliere la seconda strada, in quei foschi anni Ottanta, serviva forse più coraggio di quanto ce ne fosse allora a disposizione all'Unità: che si trovava impegnata nella battaglia per la sopravvivenza proprio mentre si preparavano a saltare i suoi punti di riferimento politico, e la morte improvvisa di Berlinguer anticipava di una manciata di anni il trauma epocale della morte del comunismo. In quel marasma, all'Unità dovettero cominciare a fare i conti con uno scenario nuovo e quasi angosciante: al nuovo partito, al nuovo soggetto politico destinato a nascere sulle ceneri del Pci, un giornale non serviva. Perché quel soggetto politico e i suoi elettori un giornale lo avevano già, ed era Repubblica.
Sotto i colpi di quel trauma, lo sbandamento fu palpabile. Un giornale vissuto per decenni nel culto della propria superiorità si trovò bruscamente alle prese con un drammatico senso di subalternità. «Cosa farà domani Repubblica?», era l'interrogativo inespresso ma palpabile delle riunioni di redazione. Insieme ai lettori, iniziò l'esodo delle firme. «Se sarete bravi, se vi metterete in mostra - dicevano tra il serio e il faceto i vecchi dell'Unità ai nuovi assunti - vi prenderanno a Repubblica». Il fiato sul collo, l'immanenza della corazzata scalfariana, condizionavano in modo quasi opprimente la vita del giornale.
Si tentarono altre strade. Finì l'epoca dei direttori di nomina politica, e arrivarono i direttori giornalisti. Se ne videro di tutti i colori. Il giorno della morte di Lady Diana, il quotidiano fondato da Gramsci aprì la sua prima pagina con il titolo «Scusaci principessa». I lettori superstiti faticavano a capire. Per tenersi a galla, si finì col reclutare un direttore tra i colonnelli di Repubblica. Arrivò, tolse la riga rossa sotto il titolo, e la mise azzurra. Anche lì, i vecchi lettori annasparono nel disorientamento. Le vicissitudini successive sono note: la sospensione delle pubblicazioni, la ripresa, la nuova crisi.

I redattori, che sono da mesi senza stipendio, sperano che la chiusura di dopodomani sia provvisoria, e che si possa risorgere un'altra volta. Ma sanno che sarà dura. L'Unità muore proprio mentre il sogno si compie, e il partito che l'ha fondata dirige il paese. Ma quel partito legge un altro giornale.
.

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica