«Mio padre in guerra contro i falsi idoli»

Il figlio dell'autore di Arcipelago Gulag: "I suoi racconti condannano chi tradisce se stesso per l'ideologia". E accusa: "Il bolscevismo ha cambiato il Dna della Russia"

«Mio padre in guerra contro i falsi idoli»

Torino - La tragedia collettiva della Russia sovietica. Il sogno tradito. Il vilipendio e l'offesa delle anime e dei corpi di milioni di persone. La pretesa robotizzazione dell'essere umano. L'abisso di una catastrofe morale, sociale e culturale senza precedenti. C'è tutto nei racconti dell'ultimo Aleksandr Solzenicyn, scritti tra il '93 e il '98, a più di trent'anni dagli esordi, dopo il Nobel, la permanenza in America e il ritorno in Russia. Un gruppo di racconti micidiali e bellissimi tre dei quali, inediti in Italia, sotto il titolo L'uomo nuovo vengono pubblicati da Jaca Book e presentati oggi a Torino dal figlio del grande autore russo morto nel 2008, Stepan Solzenicyn, 40 anni, curatore della sua eredità letteraria.

Dopo i vasti romanzi e i cicli narrativi, suo padre negli anni '90 torna alla forma breve del racconto. Perché?
«Potè scrivere queste storie proprio perché tornò a casa, in Russia. Aveva bisogno di impressioni reali, rapporti “vivi”, una vera interazione per creare il materiale di queste storie».

Perché Solzenicyn, dopo la caduta del Muro e la disgregazione dell'Urss, torna ad ambientare i racconti negli anni Venti e Trenta, quelli dello stalinismo più duro e disumano, dello Stato-caserma?
«Un autore scrive su ciò che vede o ha visto, su ciò che “vive” dentro di sé. Quelli sono gli anni in cui è cresciuto. Ed erano anni di barbarie e di violenza - prima di Lenin e poi di Stalin - ma anche di un male insidioso: la gente era portata a tradire ciò che aveva di più caro, gli amici e i propri valori. E cosa fai quando il mondo ti scivola sotto i piedi? Cerchi di lottare per ciò in cui credi... Ma se fai così rischi di farti molto male. È questo il dilemma centrale di queste storie. Un dilemma senza tempo. È accaduto prima e dopo gli anni Venti e Trenta, ma anche durante la Seconda guerra mondiale, e così nel periodo post-sovietico... Ecco l'universalità della letteratura».

Questi racconti svelano l'orrore del regime sovietico: voler creare «l'uomo nuovo», un uomo definito dall'ideologia e non dalla realtà. Esiste ancora un pericolo simile, in qualche Stato, da qualche parte del mondo? Magari nella Rete?
«È possibile. L'uomo crea falsi idoli in ogni epoca. E la tecnologia è solo uno strumento che può rendere ancora più facile questa cosa».

L'ultimo racconto, il più bello, è un attacco impietoso alla figura dello scrittore di regime...
«Racconta la scioccante indifferenza dell'intellettuale verso una persona che si trova in una situazione terribile. E non è una storia immaginaria: lo scrittore su cui mio padre modella il racconto, anche se non è nominato, era reale: un intellettuale orgoglioso di mettere le idee davanti alle persone. E questa è la più grande delle tragedie».

Quanto è ancora letta e conosciuta oggi l'opera di suo padre in Russia?
«Molto, e lo è sempre di più. Ormai è nei programmi di scuola, e non solo i racconti: adesso c'è anche una versione ridotta di Arcipelago Gulag. La storia della sua vita ha sempre ottenuto grande attenzione dalla stampa, mettendo in secondo piano la potenza dei suoi libri. Ma negli ultimi 20 anni di vita mio padre ha potuto vedere i suoi libri pubblicati in Russia. La sua biografia - che rimane eroica - importa meno. La forza e l'immediatezza dei suoi libri contano più. E il loro vero impatto è ancora di là da venire».

Quali sono le pagine narrativamente più alte della sua opera? Al lettore che volesse confrontarsi con Solzenicyn, da che cosa consiglierebbe di cominciare?
«La nostra è un'epoca in cui le persone non hanno tempo, e in cui la gente ha bisogno di qualcosa in cui identificarsi. Così il primo libro deve essere breve e non troppo “dipendente” dai fatti storici, o troppo “fantastico”. Forse il libro migliore per cominciare è La casa di Matrjona. E poi Padiglione Cancro: entrambi sono eterni. In entrambi i problemi trattati sono universalmente umani e l'Urss solo un contesto».

Che cosa direbbe oggi suo padre dei cosiddetti «nuovi barbari», dei nazi-sovietici alla Limonov?
«Mio padre scrisse cose molto eloquenti sull'essenza del carattere nazionale. In Russia in Collapse ha osservato che la vera “nuova barbarie” è l'indifferenza che le persone manifestano le une alle altre, l'assenza di preoccupazioni per il destino delle loro piccole comunità, per le grandi comunità, e per la stessa Russia. Una volta non era così. Ha scritto che un tempo eravamo un popolo ospitale e premuroso. Ma poi lo shock del bolscevismo ha cambiato il nostro Dna. E che lo shock e la “rivoluzione” del periodo post-sovietico stavano facendo qualcosa di simile.

Ecco cos'era, secondo lui, la barbarie della nostra epoca, la malattia della Russia. Ma sapeva anche che c'erano molte persone che invece rappresentavano la cura. “Luci individuali”, le chiamava, attraverso la vasta pianura russa».

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