La modernità di Bernanos, conservatore incompreso

La modernità di Bernanos, conservatore incompreso

Il 20 settembre 1944, il generale Charles De Gaulle fece inviare un dispaccio a Georges Bernanos, il grande scrittore cattolico ormai da molti anni (per l'esattezza dal 1938) ritiratosi in Brasile, per invitarlo a tornare a Parigi. L'autore del celebre I grandi cimiteri sotto la luna (1938) scritto in piena guerra civile spagnola aveva sostenuto, sia pur da lontano, la resistenza francese e la France Libre. Malgrado ciò, De Gaulle dovette insistere a lungo - in un suo telegramma del 1945 si legge: «il suo posto è in mezzo a noi» - prima che Bernanos si decidesse, il 29 giugno di quell'anno, a rimettere piede in patria. Il rientro dello scrittore fu un avvenimento per il mondo politico e culturale dell'epoca.
Il suo famoso pamphlet, sanguigno e indignato, aveva sollevato il velo sugli orrori della guerra civile, era diventato una vera e propria icona della letteratura politica militante e aveva accreditato l'immagine di un Bernanos antifascista. Molti giornali e riviste, soprattutto della sinistra, gli chiesero di collaborare. De Gaulle vide più volte lo scrittore e giunse ad offrirgli - sembra - il ministero della pubblica istruzione o un posto di ambasciatore. Nel corso di uno di questi incontri gli chiese che cosa pensasse della situazione politica del momento. La sua risposta fu lapidaria: «sarò brevissimo. La Francia è nella merda, ma siccome lei è alto ne resta al disopra!». Per De Gaulle egli aveva stima e simpatia perché in lui, probabilmente, rivedeva il vecchio nazionalista, ma la situazione francese del dopoguerra lo angustiava profondamente e lo faceva soffrire.
Il rientro nel Paese da lui tanto amato fu, per questo e in un certo senso, soltanto episodico. Bernanos, infatti, che sarebbe morto pochi anni dopo, cominciò, pur svolgendo una intensa attività giornalistica, a viaggiare, in Europa e in Africa Settentrionale, e si stabilì in Tunisia sino al momento in cui, a fine maggio 1948, venne trasportato in aereo a Parigi per tentare un intervento chirurgico ormai inutile. All'inizio dell'anno precedente una sua conferenza alla Sorbona sul tema Démocratie et Rèvolution aveva suscitato un vespaio. In quella occasione, egli, col corpo già minato dal male ma con la sua caratteristica e ben nota foga oratoria, si volse al pubblico dicendo: «La parola democrazia non significa assolutamente niente per me. Mi chiedo se non sia la più sputtanata di tutte le lingue». Sembrò una provocazione, ma non lo era, perché il suo itinerario intellettuale e politico era stato sempre coerente. Malgrado le apparenze e le strumentalizzazioni politiche, che iniziarono proprio dopo la pubblicazione di I grandi cimiteri sotto la luna. Il saggio si presentava come una dura condanna dei massacri di massa della popolazione di Maiorca ad opera dei falangisti, ma non era affatto un passo indietro rispetto alle sue posizioni monarchiche e antidemocratiche. Vi si ritrovano dichiarazioni più che eloquenti. Come, per esempio, questa: «Il democratico, in particolare l'intellettuale, mi sembra il tipo di borghese più odioso». O, ancora, le invettive contro la «democrazia sociale» accusata di avere «sfruttato l'idea di giustizia», contro la «democrazia parlamentare» imputata di avere «sfruttato l'idea del diritto», contro la «democrazia guerriera» che aveva «prostituito l'eroismo e l'onore». E, infine, la fosca previsione secondo la quale le «democrazie autoritarie» avrebbero finito per distruggere «il ricordo di ciò che fu la libera Monarchia cristiana». Sono parole che ben chiariscono il senso della polemica di Bernanos contro il fascismo e il nazionalsocialismo visti, da lui, come manifestazioni di totalitarismo o «democrazia totalitaria». Non è privo di significato il fatto che, all'inizio, egli avesse guardato con simpatia la rivolta contro la repubblica spagnola radical-socialista e avesse approvato la scelta del figlio di unirsi ai falangisti. Poi erano venuti i massacri e, quindi, la sua indignazione morale di cattolico tradizionalista. Non è un caso che l'ultima opera di Bernanos, I dialoghi delle carmelitane, tratti un episodio della persecuzione religiosa durante la fase del Terrore all'epoca della rivoluzione francese: vi è espressa, forse, sotto metafora la condanna della persecuzione della Chiesa spagnola ad opera degli antifranchisti. Fascisti, nazionalsocialisti e comunisti erano, per Bernanos, accomunati da una stessa sostanza totalitaria che avrebbe finito per sacrificare l'uomo e distruggerne la libertà. Di qui, le sue invettive, anche degli ultimi anni, contro la «democrazia di massa», contro la «società tecnocratica», contro il «mito del progresso» e contro la «logica degli imbecilli», in particolare, degli «intellettuali-imbecilli».
Allo scrittore francese è stata ora dedicata una nuova biografia dal titolo Bernanos (Perrin, pagg. 270) scritta da Philippe Dufay, già cimentatosi con altri lavori biografici su intellettuali contemporanei come Jean Giradoux e Jean d'Ormesson. Accolto con qualche riserva critica per la troppa indulgenza all'aneddotica, per le troppe sviste e anche per alcuni discutibili passaggi (come quello che affianca le posizioni antisemite di Cèline alle pagine dedicate da Bernanos a Èduard Drumont in La grande paura dei benpensanti), il volume non aggiunge nulla agli studi su Bernanos. Soprattutto, però, esso appare fuorviante e incapace di comprendere la complessità di un personaggio che non può essere liquidato con una risibile definizione («uno scrittore, un cristiano, un monarchico e un antisemita») o con una battuta («un ibernato congelato all'epoca delle Crociate e scongelato sotto la III Repubblica degli Affari Dreyfus, Panama e Stavinsky»). La verità è che Bernanos - oltre ad essere un gigante della letteratura francese, autore di opere indimenticabili come Sotto il sole di Satana o Diario di un parroco di campagna o, ancora, Nuova storia di Mouchette - è stato un pensatore politico di grande spessore e coerenza, anche quando si trovò a polemizzare con i suoi vecchi amici dell'Action Française. Di lui, Albert Camus, nel 1939 scrisse che era «stato tradito due volte»: dagli uomini di destra che lo avevano ripudiato perché aveva scritto che «gli assassinii di Franco lo avevano fatto fremere» e dai partiti di sinistra che lo acclamavano «malgrado la profonda antipatia» da lui nutrita nei loro confronti.

E aggiunse, ritenendo necessario scriverlo «proprio in un giornale di sinistra», che «questo scrittore di razza» meritava «il rispetto e la gratitudine di ogni uomo libero» e che, come atto di deferenza, non lo si doveva annettere alla propria fazione.

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